Essere soli impatta sul cervello: l'isolamento sociale negli anziani si lega a un rischio aumentato di declino cognitivo e demenza
Uno studio appena pubblicato sulla rivista scientifica Neurology, il giornale dell’American Academy of Neurology, mette in evidenza quanto l’isolamento sociale possa impattare su alcune aree del cervello nelle persone anziane, predisponendole così a un rischio maggiore di andare incontro a decadimento cognitivo e demenza, oltre che aumentare la possibilità di cadere in depressione.
STUDIARE GLI EFFETTI DELL'ISOLAMENTO NEL TEMPO
«Questo studio è particolarmente significativo perché su larga scala, ma non solo» spiega Federica Agosta, professore associato di Neurologia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e Group Leader Unità di Neuroimaging delle Malattie Neurodegenerative, Istituto di Neurologia Sperimentale del San Raffaele. «Anche perché tiene conto della eventuale comparsa di manifestazioni cliniche nel corso di un arco temporale molto lungo. La ricerca è stata infatti eseguita su 462.619 persone nel Regno Unito con un’età media, all’inizio dello studio, di 57 anni. Queste persone sono state seguite per quasi dodici anni, fino all’inizio della pandemia. All’interno di questo folto gruppo è emerso che 41.886 persone, ossia il 9 per cento dei partecipanti alla ricerca, si è ritrovato in una condizione di isolamento sociale. Il 6 per cento, invece, ha dichiarato di percepire una significativa sensazione di solitudine. È emerso inoltre che 4.998 persone hanno sviluppato una forma di demenza».
CON LA SOLITUDINE IL RISCHIO DI DEMENZA AUMENTA
La ricerca ha incluso test in grado di misurare il grado di isolamento sociale attraverso una varietà di strumenti e test psicologici e biologici come l’utilizzo di alcuni questionari e il ricorso alla risonanza magnetica. In questo modo si è evidenziato che delle 41.886 persone socialmente isolate, 649 hanno sviluppato una forma di demenza (1,55 per cento). Quindi una percentuale in proporzione significativamente alta rispetto alle altre 420.733 persone che non hanno manifestato isolamento sociale. In questo caso, infatti, è andato incontro a demenza l’1,03 per cento.
L’ISOLAMENTO SOCIALE IMPATTA SUL CERVELLO
«Tenendo dunque conto di analoghi fattori sociali, di età, sesso, comorbidità - prosegue Agosta - è emerso da questo studio che l’isolamento sociale impatta sul volume di aree del cervello deputate all’apprendimento e alla memoria, aumentando del 26 per cento le probabilità di andare incontro a decadimento cognitivo, rispetto a coloro che hanno mantenuto nel corso degli anni relazioni sociali. In sostanza l’isolamento sociale si associa ad un’atrofia di alcune zone cerebrali fondamentali per regolare le funzioni cognitive. Tale riduzione volumetrica era inoltre correlata alla ridotta espressione di alcuni geni. Si tratta, dunque, di una ricerca che mette in rilievo il possibile ruolo dell’epigenetica, ossia di quanto l’ambiente e lo stile di vita possano modificare l’espressione di alcuni geni e, di conseguenza, le caratteristiche strutturali del cervello».
L’EFFETTO PROTETTIVO DELLE RELAZIONI SOCIALI
«È d’obbligo una considerazione generale - precisa Agosta - che riguarda la capacità protettiva delle relazioni sociali in grado di far fronte, in generale, al decadimento cognitivo, aiutando così la prevenzione di malattie come l’Alzheimer (e anche il Parkinson). I contatti con gli altri costituiscono infatti, come evidenziato da questo studio ma non solo, perché numerosa è la letteratura a questo riguardo, uno strumento fondamentale per mantenere la nostra riserva cognitiva capace di far fronte al deterioramento legato all’età e a una predisposizione genetica alle demenze. Questo aspetto è stato messo ulteriormente in evidenza da questi due anni di pandemia. Il Covid ha acuito disturbi psicologici e cognitivi negli anziani (e non solo) proprio a causa dell’isolamento sociale».
UNA GUIDA CONCRETA PER IL FUTURO
«Questa ricerca sarà di stimolo per ulteriori studi di natura epigenetica con l’obiettivo di stabilire utili, anche se spesso complesse, correlazioni, tra i geni e la loro espressione», conclude la neurologa. Ma lo scopo può essere anche quello di arrivare a interventi in grado di rendere la vita delle persone anziane un po’ meno solitaria, privilegiando le interazioni sociali e il confronto con gli altri. Un esempio? Il cohousing, un modello abitativo diffuso negli Stati Uniti e nei paesi nordeuropei. Si tratta di progetti abitativi caratterizzati da una forte interazione sociale e basati sul supporto reciproco. Si condividono spazi comuni e servizi. Gli anziani soli possono infatti aiutarsi in molte attività quotidiane, grazie anche al sopporto di figure professionali specifiche. In numerosi senior cohousing europei e nord americani sono previsti spazi per l’assistenza medica, oltre a spazi condivisi adibiti alla ginnastica e alle attività adatte alla terza età. Le strutture di cohousing per anziani non possono essere viste come alternative alla casa di riposo, in quanto i residenti sono autonomi o con piccole disabilità, gestibili in ambiente domestico. Poter vivere insieme e supportarsi rappresenta un notevole vantaggio per la popolazione anziana.
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Paola Scaccabarozzi
Giornalista professionista. Laureata in Lettere Moderne all'Università Statale di Milano, con specializzazione all'Università Cattolica in Materie Umanistiche, ha seguito corsi di giornalismo medico scientifico e giornalismo di inchiesta accreditati dall'Ordine Giornalisti della Lombardia. Ha scritto: Quando un figlio si ammala e, con Claudio Mencacci, Viaggio nella depressione, editi da Franco Angeli. Collabora con diverse testate nazionali ed estere.