Essere troppo solitari a partire dai 45 anni può accrescere il rischio di sviluppare una demenza, negli anni a venire. Vivere in compagnia fa bene alla salute
Se ancora occorressero prove per quello che ormai è un assioma - la donna e l’uomo sono esseri sociali, configurati per vivere in gruppo - ecco dall’università di Boston (Stati Uniti) uno studio che sottolinea il costo della solitudine. In termini di salute, non di malessere. Secondo gli autori del lavoro, pubblicato sulla rivista Alzheimer’s and Dementia, un persistente stato di isolamento (in particolare nella mezza età) può raddoppiare il rischio di sviluppare una demenza o l’Alzheimer rispetto a quella rilevabile tra coloro che sono vissuti sempre all’interno di una rete sociale solida. La fascia di età considerata è compresa tra 45 e 64 anni: «Vivere soli in quel periodo può essere un fattore di rischio, indipendente e modificabile, per le degenerazioni mentali», osserva la ricercatrice Wendy Qiu.
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LA SOLITUDINE NELLA MEZZA ETÀ PREPARA LA VIA ALLA DEMENZA
Per lo studio, gli scienziati si sono avvalsi dei dati di 2.880 adulti presi dal Framingham Heart Study, che va avanti dal 1948 quando fu avviato per controllare i rischi cardiovascolari nella popolazione e poi si è esteso ad altri ambiti. Target considerato: un gruppo di persone di età compresa tra i 45 e i 64 anni negli anni compresi tra il 1998 e 2001. Senza, naturalmente, alcun disturbo cognitivo. I partecipanti sono stati sottoposti a diversi esami ogni quattro anni. E, a distanza di tre, sono stati esaminati due volte sotto il profilo della depressione. Tra le domande, quelle su quanto e quando la persona si fosse sentita sola. Da tutte queste risposte i ricercatori di Boston hanno delineato quattro sottogruppi: «nessuna solitudine» (quando i partecipanti non dichiaravano di averne patito), «solitudine passeggera» (se i partecipanti ne parlavano a un incontro e non nel successivo), «solitudine casuale» (se il partecipante ne parlava nella seconda seduta ma non nella prima) e «solitudine persistente» (quando la persona ne parlava in ambedue gli incontri).
LE MALATTIE NEURODEGENERATIVE POSSONO ESSERE PREVENUTE?
UN «PO’» DI SOLITUDINE PUO’ ANCHE RAFFORZARE
Si è così potuto osservare che i membri dell’ultimo gruppo avevano un rischio più elevato di sviluppare una demenza rispetto a coloro che non si erano mai sentiti solitari. Ma, a sorpresa, più «protetti» di questi ultimi contro le demenze si sono rivelati, nel tempo, quanti avevano sofferto di solitudine passeggera. Come mai? Gli scienziati di Boston fanno appello alla resilienza: quelli che sono riusciti a combattere contro la solitudine, a superare questo ostacolo penoso nella loro vita, si presentano più tardi, nel tempo, «armati» contro i processi neurodegenerativi indotti dall’avanzare dell’età.
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LA SOLITUDINE HA UN IMPATTO SULLA PROSPETTIVA DI VITA
«Parliamo di solitudine subita, non voluta - commenta Massimo Biondi, ordinario di psichiatria e direttore del dipartimento di scienze psichiatriche e medicina psicologica dell’Università di Roma La Sapienza -. Sono 30 anni che la scienza studia la solitudine sotto il profilo del rischio salute. Nel frattempo, si è visto che induce un maggior rischio a livello immunitario e cardiovascolare. A Los Angeles si è creata la “Scala della solitudine”, da cui emerge che la mente e gli organi periferici hanno una certa debolezza. Non è un caso che vedovi e persone che vivono sole spesso muoiano prima». La ricerca di Boston si inserisce in questo filone. Aggiunge Biondi: «Nelle persone che vivono la solitudine con angoscia la stabilità elettro-cardiaca peggiora, come accade nel lutto che è una solitudine improvvisa».
VIVENDO INSIEME CI SI AIUTA
Ci sono poi fattori contingenti, di vita pratica: «Stando in un gruppo c’è più controllo della salute, maggiore aderenza alla cura, ti ricordano gli altri che devi prendere una pillola, solo per fare un esempio. L’alimentazione è migliore, si ha maggior cura di sé. Mediamente, un cinquantenne col diabete che vive da solo è più portato a non controllarsi». Ma si sa un perché di questo dover vivere in società per stare bene? «Supponiamo che il nostro cervello sia programmato per gli attaccamenti affettivi. Del resto, andando indietro, già nel paleolitico c’era questo vivere in comune».
Serena Zoli
Giornalista professionista, per 30 anni al Corriere della Sera, autrice del libro “E liberaci dal male oscuro - Che cos’è la depressione e come se ne esce”.