Dati recenti indicano un effetto-familiarità nella depressione resistente, che non risponde alle terapie. Riconoscere il rischio aiuta a curare meglio
Esiste una depressione che si chiama resistente, in quanto non risponde agli antidepressivi. In genere si considera tale se il paziente ha assunto almeno due diversi antidepressivi nelle dosi adeguate e per un congruo periodo di tempo, diciamo sei settimane. Uno studio compiuto a Taiwan e pubblicato su Jama Psychiatry considera il fatto che se in famiglia ci sono casi di questo tipo di depressione, i discendenti hanno un aumentato rischio di soffrirne anche loro e in più un aumentato rischio di altre malattie psichiatriche.
INDAGINE SU 21MILA PERSONE
«In anni recenti – ha scritto uno dei ricercatori, Chih-Ming Cheng – un numero crescente di studi hanno cercato di capire l’architettura genetica della risposta agli antidepressivi o della resistenza ai trattamenti (Trd), ma queste indagini vanno ripetute perché si confrontano con due ostacoli: i relativamente ridotti gruppi di pazienti da esaminare e le diverse definizioni della resistenza». Cheng e i suoi colleghi si sono basati sui dati nazionali di assicurazione sanitaria e sui registri di mortalità dove sono registrate le cause dei decessi, usando le informazioni dal 2003 al 2017. Si sono considerati affetti da Trd i pazienti con diagnosi di depressione maggiore che avevano ricevuto almeno tre adeguati antidepressivi nel corso di due anni. In totale sono state individuate 21.046 persone resistenti.
RISCHIO DI NOVE VOLTE MAGGIORE
I ricercatori hanno poi trovato 34.467 parenti di primo grado di questi pazienti sotto esame e, come gruppo di controllo, 137.868 parenti di primo grado di persone senza depressione resistente. Si è potuto così constatare che i congiunti di quanti avevano la Trd avevano nove volte di più la possibilità di soffrirne anche loro rispetto al gruppo di controllo. Ma non finisce qui: avevano anche maggiore probabilità di sviluppare altre malattie psichiatriche, come schizofrenia, disturbo bipolare, deficit d’attenzione e iperattività, depressione maggiore, un disturbo dello spettro dell’autismo, ansia, disturbo ossessivo-compulsivo. Ancora, tra questi parenti di persone con Trd risultava più alto il rischio di morte per cause diverse e per suicidio.
RICONOSCERE IL RISCHIO PER MIGLIORARE LE CURE
«Una famiglia con una storia di Trd è un fattore di rischio clinico per la sua associazione con un’aumentata mortalità per suicidio e per la resistenza ai trattamenti antidepressivi. Occorrono perciò terapie per la depressione più intense con farmaci e altre cure non farmacologiche», concludono gli autori della ricerca taiwanese. Commenta il professor Bernardo Maria Dell’Osso, ordinario di Psichiatria all’Università di Milano e direttore della Clinica psichiatrica all’Ospedale Sacco di Milano: «L'articolo, pubblicato su Jama Psychiatry, una delle più prestigiose riviste scientifiche internazionali di psichiatria, sottolinea il peso della familiarità dei disturbi depressivi, in particolare della forma più grave di depressione - la cosiddetta Trd - ovvero di quella forma di depressione più difficile da trattare, perché risponde meno ai trattamenti antidepressivi di primo livello, oltre che maggiormente a rischio di comportamenti suicidari e di comorbidità con altri disturbi psichiatrici».
DA SUBITO TERAPIE PIÙ AGGRESSIVE
Continua il professor Dell’Osso: «In ultima analisi, l'articolo supporta la necessità di prestare molta attenzione alla presenza di casi in famiglia caratterizzati da questa forma di depressione, al fine di prevedere da subito forme di trattamento più aggressive (ad esempio, integrazione di terapie farmacologiche differenti con psicoterapia, combinazioni di più antidepressivi, utilizzo di antidepressivi per via parenterale, trattamenti di neurostimolazione) con un monitoraggio del paziente più stretto».
Serena Zoli
Giornalista professionista, per 30 anni al Corriere della Sera, autrice del libro “E liberaci dal male oscuro - Che cos’è la depressione e come se ne esce”.