In Svezia la percentuale di ex detenuti che muoiono per l’abuso delle sostanze raggiunge anche il 50%. In Italia non c’è assistenza psicologica, durante e dopo la detenzione, per queste persone
Che chi venisse fuori da un lungo periodo di detenzione avesse un rischio di morte più elevato rispetto alla popolazione generale non è cosa nuova. Ciò che si viene a sapere adesso è che gli ex detenuti sono più fragili di fronte all’alcol e alla droga. Dati che giungono dalla Svezia, attraverso le colonne di The Lancet Psychiatry.
Quali rischi si nascondono dietro le sbarre?
CHI LASCIA IL CARCERE MUORE PRIMA
«Ecco come ripensare il nostro sistema carcerario». A diffonderli un gruppo di quattro ricercatori, affiliati all’Università di Oxford e al Karolinska Institutet, che sono giunti a questa conclusione dopo aver esaminato le cause di decesso di oltre 47mila detenuti rilasciati dalle carceri svedesi tra l’1 gennaio 2000 e il 31 dicembre 2009. Obiettivo del loro studio era indagare il rapporto tra la frequenza dei disturbi psichiatrici, del consumo di alcol e droghe - ritenuto un fattore di rischio per tumori, malattie cardiovascolari e disturbi psichiatrici - e i tassi di mortalità tra chi aveva alle spalle un periodo di detenzione. Cosa è emerso? Quasi tremila ex carcerati sono morti entro cinque anni dal rilascio, per ragioni spesso attribuibili all’abuso di bevande alcoliche e di sostanze stupefacenti. Una conclusione a cui gli scienziati sono arrivati confrontando i tassi di decesso tra i forti consumatori delle stesse, che sovente presentavano disturbi psichiatrici quali la depressione e la schizofrenia, e altri detenuti, meno avvezzi al consumo di queste sostanze. Da qui la stima della percentuale di decessi attribuibili all’alcol e ad altri stupefacenti. Ovvero: 1 su 3 tra gli uomini, 1 su 2 nella popolazione femminile. Con un rischio persistente anche a diversi anni dall’abbandono di una casa circondariale.
Se dalle carceri italiane evade la salute
SCARSA ATTENZIONE PER I DETENUTI
Sono dati che fanno riflettere, se si considera che la Svezia ha un tasso di carcerazione relativamente basso - 67 detenuti ogni centomila abitanti, in Italia ve ne sono 103 -, ma presenta una frequenza di abuso di sostanze stupefacenti e di gravi disturbi psichiatrici tra gli ex carcerati paragonabile a quelle riscontrate nel Regno Unito e negli Stati Uniti. C’è dunque un filo conduttore che lega tutti i Paesi più sviluppati: la scarsa attenzione rivolta alla comunità dei carcerati. Se negli Stati Uniti meno dell’un per cento dei detenuti segue percorsi per disintossicarsi e meno di un decimo riceve una consulenza specialistica, in Italia «molti di essi hanno problemi di salute mentale già prima di finire in cella, dove non vengono curati - afferma Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di salute mentale dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano -. L’assistenza è scarsa e manca uno screening che valuti chi rischia di suicidarsi». La sensibilità nei confronti di questi temi lungo la Penisola è scarsa, se pochi mesi fa sono stati proprio alcuni detenuti torinesi a documentare la presenza di hashish e bevande alcoliche oltre le mura del carcere della Vallette. «L’abuso di sostanze tossiche è una delle maggiori emergenze della società moderna e stiamo facendo poco per contenerla - dichiara Emilio Sacchetti, ordinario di psichiatria all’Università di Brescia e presidente della Società Italiana di Psichiatria -. Il loro utilizzo è più frequente tra i carcerati, che una volta rilasciati rischiano episodi di overdose, dopo una lunga astinenza. Servirebbe sensibilizzarli, finché sono nelle strutture, per poi accompagnarli verso percorsi di assistenza gestiti dai Sert e dai centri di salute mentale. Al momento, però, di tutto ciò c’è poco o nulla».
«Ecco come ripensare il nostro sistema carcerario»
SERVE ASSISTENZA SUL TERRITORIO
L’avvio del procedimento di chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari - in molti casi ancora attivi, visto che le residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza alternative alle strutture attuali (Rems) in molte regioni non sono ancora pronte - non sta migliorando la situazione. Secondo la Società Italiana di Psichiatria «le regioni devono completare la presa in carico dei soggetti internati e incrementare l'assistenza negli istituti di pena, fornendo alle Asl le risorse per i distretti di salute mentale». Rimanendo alla realtà dei fatti, invece, «la legge affida ai soli infermieri il compito di accompagnare i sorvegliati dalle Rems agli ospedali quando necessario e anche questo non sembra un modo di garantire la sicurezza», denuncia Massimo Cozza, segretario nazionale della Cgil medici e psichiatra.
Fonti
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).