Malattie psichiche e infettive sono le più diffuse dietro le sbarre. La Società di medicina penitenziaria lancia una campagna. «Il detenuto di oggi è il cittadino di domani»
C’è una pena non descritta dal Codice penale, si chiama ergastolo bianco. Ne ha parlato oggi alla Conferenza di Science for Peace l’ex ministro della Giustizia Paola Severino, giurista e professore di Diritto penale. «Ci sono persone malate di mente, che si vedono rinnovare la dichiarazione di pericolosità sociale per il solo fatto che non esistono persone o strutture per accoglierli o curarli una volta fuori. Sono trascorsi quasi 3 anni dal decreto “salva-carceri”, che prevedeva la chiusura dei vecchi manicomi criminali (oggi OPG, ospedali psichiatrici giudiziari, ndr), ma le Regioni non sono ancora riuscite ad attuare la norma. La mancanza di risorse, la mancanza di stimoli adeguati non hanno consentito quello che è un progetto fondamentale di civiltà giuridica. Sono persone che vanno curate prima e poi contenute».
LE MALATTIE
I disturbi psichiatrici sono le più diffuse fra le malattie dietro le sbarre. Seconde, vengono le malattie infettive. Sergio Babudieri è infettivologo e presidente della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria, la SIMSPe, che ha da poco lanciato la campagna La salute non conosce confini insieme alla SIMIT, la Società italiana di malattie infettive e tropicale. «Oltre 122.000 persone nel 2013 hanno passato almeno una notte in carcere e fra loro il 30-40% risulta infetto dal virus dell’epatite C, con l’epatite cronica attiva che ne deriva. Non è un segreto, in carcere aumenta l’esposizione a questa e ad altre infezioni, con l’uso di siringhe, tatuaggi, piercing, atti sessuali.
Il serbatoio di malattie infettive è lì, un serbatoio di malattia sociale e medica. E la maggior parte delle persone non ne è consapevole». Oltre la metà dei detenuti è venuto in contatto con il virus dell’epatite B (ma i portatori attivi sono il 5-6%), sul totale dei detenuti, quelli positivi al test della tubercolosi (che rileva i portatori dell’infezione, non i malati veri e propri che diventano tali solo nel 15% dei casi) sono 15-20 volte più numerosi rispetto a quanto accade nella popolazione generale. Lo stesso dicasi per i casi di HIV.
I DATI
«I numeri dicono questo. Sono sempre delle stime, è importante sottolinearlo, ma gli unici dati sono i nostri» prosegue Babudieri. «Pare impossibile, ma i dati che servono agli amministratori del sistema penitenziario provengono da privati, da una onlus come noi, e non dallo Stato. Basterebbe raccogliere le informazioni dalle amministrazioni regionali, che hanno l’obbligo di tenere un osservatorio epidemiologico sulle carceri. Già un anno fa in Senato avevamo chiesto un Osservatorio epidemiologico permanente per tutte le malattie in carcere».
NON SOLO INFEZIONI
“Il carcere è la nostra Africa” hanno iniziato a dichiarare qualche tempo fa i medici della SIMPSe. «Possiamo ritenere sani meno di un terzo dei residenti in carcere. E non ci sono solo le infezioni, ma le malattie metaboliche ad esempio, molti mangiano male, soffrono di diabete, quasi tutti fumano e meno male che da poco si sono introdotte misure restrittive per l’alcol. Per non parlare delle malattie a cui nessuno pensa. Quando ero al carcere di Viterbo, abbiamo condotto uno studio sulla prevalenza della psoriasi fra i detenuti, insieme all’Adipso. Chi ci ha mai fatto caso? Venne fuori un’incidenza 7 volte superiore a quella esterna».
Psoriasi: chi ne soffre è meglio che escluda i tatuaggi
I RISCHI NEGATI
Le carceri sono un concentrato di potenziali rischi, che si sommano a quelli già spesso presenti nella vita di queste persone. In altri paesi europei si sono introdotte misure preventive, ad esempio con la distribuzione di siringhe monouso o di profilattici. Un provvedimento incluso anche nel pacchetto di intervento elaborato dall’Office on Drugs and Crime delle Nazioni Unite, insieme all’Organizzazione mondiale della sanità. «Qui non si può» dice Babudieri. «L’ordinamento penitenziario vieta di fare entrare siringhe e profilattici. Bisognerebbe avviare uno studio pilota che convolga alcuni istituti. Il punto è proprio questo: la negazione dei problemi. Fare finta di non sapere che in carcere capita che ci si faccia un tatuaggio a decine con uno stesso ago e magari lo stesso inchiostro, a volte lo fanno bollire un po’ in un pentolino».
LE OCCASIONI MANCATE
Non pensa che, paradossalmente, il carcere potrebbe essere anche un’occasione di salute? «Senza “paradossalmente”. Lo è, è un’opportunità unica, ma sprecata nella maggior parte dei casi. La realtà è che in carcere i rischi per la salute sono concentrati e moltiplicati rispetto a quanto accade “fuori”, dovrebbe essere il contrario, qui si potrebbero identificare e curare malattie, aiutare a adottare abitudini di vita più sane, insegnare a prendersi cura di sè e magare dere anche un premio a chi intraprende questo percorso e ottiene risultati. E’ talmente logico, è la società che ne trarrebbe il primo vantaggio. Lo ripetiamo sempre: il detenuto di oggi è il cittadino di domani». Lo dice anche la nostra Costituzione: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato.
Donatella Barus
Giornalista professionista, dirige dal 2014 il Magazine della Fondazione Umberto Veronesi. E’ laureata in Scienze della Comunicazione, ha un Master in comunicazione. Dal 2003 al 2010 ha lavorato alla realizzazione e redazione di Sportello cancro (Corriere della Sera e Fondazione Veronesi). Ha scritto insieme a Roberto Boffi il manuale “Spegnila!” (BUR Rizzoli), dedicato a chi vuole smettere di fumare.