I tumori del seno tripli negativi hanno una prognosi sfavorevole per la mancanza di terapie mirate. Francesco Piacente studia l’impiego di farmaci in grado di bloccare un enzima
Grazie alle nuove terapie e alla diagnosi precoce, il tumore al seno oggi fa un po’ meno paura e il tasso medio di guarigione a cinque anni dalla diagnosi è pari all’87 per cento. Esiste tuttavia una percentuale abbastanza alta di pazienti (circa il 10-15 per cento) che non risponde alle terapie mirate oggi disponibili: sono i casi di cancro al seno triplo negativo. Come suggerito dal nome, le cellule di questo tumore non presentano sulla superficie nessuno dei tre classici bersagli contro cui sono dirette le cure più efficaci. In loro mancanza, l’unica possibilità terapeutica è la chemioterapia che però non dà risultati soddisfacenti. I tumori triplo negativi hanno, infatti, una prognosi particolarmente sfavorevole a causa della loro tendenza a ricomparire e allo sviluppo di resistenza farmacologica.
Negli ultimi anni, numerose ricerche hanno studiato il ruolo, in diversi tumori solidi, dei processi che coinvolgono NAD, un co-enzima implicato nelle reazioni chimiche di ossidoriduzione nelle cellule. Grazie al sostegno del progetto Pink is Good, Francesco Piacente sta lavorando per verificare se bloccare farmacologicamente il NAPRT (l’enzima che produce il NAD) abbia un effetto sul metabolismo e sulla crescita del tumore al seno triplo-negativo. L’obiettivo ultimo dei suoi studi è validare l’impiego di farmaci in grado di bloccare NAPRT come nuova terapia per il trattamento dei tumori al seno triplo negativi.
Francesco, lo scopo del progetto è caratterizzare il ruolo di una molecola, il NAPRT, nei tumori della mammella. Ci sono altri studi che implicano il NADPRT nello sviluppo tumorale?
«In uno studio precedente, il nostro team ha dimostrato che gli enzimi che producono NAD, come il NAPRT, hanno un ruolo chiave in diversi tipi di neoplasie. Si è visto, infatti, che l’inibizione di NAPRT in alcuni tumori solidi (come quelli dell’ovaio e del pancreas) che lo producono ad alti livelli è in grado di rendere le cellule cancerose sensibili ai farmaci chemioterapici già utilizzati in clinica».
Puoi dirci in che cosa consiste nel dettaglio la ricerca?
«In primo luogo andrò a studiare gli effetti dell’inibizione di NAPRT sulla crescita delle cellule tumorali in vitro, sul loro metabolismo e sulla loro sensibilizzazione a diversi farmaci già in uso. Verrà analizzato anche l’impatto di un aumento nei livelli di NAPRT in cellule mammarie sane, per chiarire quale sia il suo coinvolgimento nella trasformazione in cellule tumorali. Infine, si verificherà l’eventuale tossicità di nuovi composti in grado di inibire NAPRT in modelli animali, e la loro attività su tumori derivanti da cellule umane impiantate nel topo».
Quali prospettive apre quindi per la salute umana la tua ricerca?
«Questo studio valuterà se l’inibizione di NAPRT possa rappresentare una nuova strategia per il trattamento dei tumori TNBC, che attualmente hanno una prognosi sfavorevole perché non sono responsivi alle terapie ad oggi utilizzate».
Sei stato sei mesi all’Imperial College di Londra. Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
«È stata una bellissima esperienza che mi ha permesso di vedere come funziona il mondo della ricerca al di fuori dell’Italia. Fare ricerca all’estero è molto stimolante e, nonostante la competizione sia alta, la vita del ricercatore è molto più “rilassata”. Questo perché viene valutata la qualità del lavoro piuttosto che la quantità e ogni ricercatore è libero di gestire il suo progetto e il suo tempo come meglio crede, l’importante è che alla fine si raggiunga il risultato. In questo modo ogni ricercatore può liberare la mente e trovare il suo “modo” di fare ricerca e di approcciarsi al progetto».
Ti è mancata l’Italia?
«Se devo essere sincero, dell’Italia mi sono mancati solo gli affetti, genitori e amici, perché purtroppo fare ricerca in Italia è diventato molto difficile. La mancanza di fondi da un lato costringe i ricercatori ad usare mezzi obsoleti e dall’altro lato non offre alcuna gratificazione o possibilità di carriera».
Come è visto il ricercatore italiano all’estero?
«È tenuto in grande considerazione, perché la nostra preparazione universitaria è molto buona. Nel mio caso, ad esempio, la tutor mi ha detto che nonostante fossi solo un dottorando ero molto più preparato di molti ricercatori post-dottorato di altri Paesi con cui aveva collaborato».
Perché hai scelto di intraprendere la strada della ricerca?
«Sono stato attratto dalla natura e dalla sua perfezione fin da bambino. Crescendo ho sentito il desiderio di studiare e di conoscere come funziona il mondo che mi circonda fin nei minimi dettagli. La scienza è stata una scelta “obbligata”».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«La sua continua variabilità e l’incessante sfida a risolvere un quesito dopo l’altro».
E cosa invece eviteresti?
«L’insicurezza e la precarietà che ti costringono a privazioni e sacrifici anche personali».
Cos’è che da un significato profondo alle tue giornate lavorative?
«Il pensiero che il mio contributo, seppur piccolo, aiuterà un giorno qualche altro ricercatore a trovare una cura per una malattia e quindi a migliorare la vita del genere umano».
Cosa fai nel tempo libero?
«Mi piace leggere, ma ho anche un hobby che mi assorbe molto e mi permette di rilassarmi e svuotare la mente dai problemi del lavoro: lavorare il legno, sia per costruire oggetti e mobili sia per realizzare piccole opere artistiche».
Qual è la cosa di cui hai più paura?
«Rimanere solo. Penso che l’uomo sia un animale che è fatto per condividere la propria vita e che questa non abbia significato se si è soli».
Un ricordo a te caro di quando eri bambino.
«Quando mia nonna, per farmi dormire al pomeriggio, mi preparava una tenda fatta di corda e lenzuola sopra il suo letto e giocavamo ad essere in campeggio».