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Agnese Collino
pubblicato il 12-02-2018

Protonterapia: nuova arma contro i tumori cerebrali pediatrici



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Nel curare i tumori del cervello, la radioterapia può danneggiare in parte anche il tessuto intorno alla malattia. Domenico Zacà vuole verificare le potenzialità di una nuova tecnica alternativa

Protonterapia: nuova arma contro i tumori cerebrali pediatrici

I tumori del cervello sono purtroppo fra le neoplasie solide più comuni in età infantile. Per questo tipo di malattie la precisione nel selezionare l’area da trattare è un criterio particolarmente importante. Tuttavia la tradizionale radioterapia, trattamento standard nella cura di questi tumori, può causare danni anche al tessuto sano intorno alla massa maligna, associati a declino cognitivo. Un rischio purtroppo più elevato per i bambini, dovuto ad una loro maggiore sensibilità alle radiazioni e alla più lunga prospettiva di vita davanti a sé.

Un’alternativa che potrebbe limitare questi importanti effetti collaterali è rappresentata dalla protonterapia (o terapia protonica, PT), un nuovo tipo di radioterapia che utilizza un fascio di protoni per irradiare un tessuto biologico malato. La protonterapia consente una distribuzione molto circoscritta delle radiazioni all’area da colpire, una prospettiva preziosa soprattutto per l’ambito pediatrico.

Eppure ad oggi non sono ancora disponibili studi che chiariscano questo aspetto, andando ad indagare la relazione tra la dose di radiazioni e l’impatto sul paziente. Proprio di questo si occupa il fisico leccese Domenico Zacà, che si è aggiudicato un finanziamento di Fondazione Umberto Veronesi nell’ambito del progetto Gold for Kids per portare avanti uno specifico progetto di ricerca all’Università di Trento.

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Domenico, raccontaci il tuo progetto nel dettaglio.

«Purtroppo al momento, complice anche la scarsità di centri che possano somministrare la protonterapia, manca un’evidenza chiara che mostri quali sono gli effetti di questo trattamento sul paziente, e se davvero come ci si aspetta permetta di limitare i danni collaterali. Ecco perché nel mio lavoro punto a investigare la relazione tra gli effetti della protonterapia (a seconda della dose) e i cambiamenti strutturali e funzionali nel cervello, misurati con la risonanza magnetica (RM), su pazienti pediatrici affetti da tumori cerebrali. Il primo passo sarà quello di sviluppare un protocollo armonizzato di acquisizione di immagini RM per poter comparare i risultati ottenuti con apparecchi differenti».

Quali risvolti ti aspetti che possano emergere da questo tuo lavoro?

«Individuare le aree cerebrali più suscettibili ad alterazioni strutturali e funzionali dovuti alla protonterapia aiuterà in futuro a ottimizzare i piani di trattamento, con l’obiettivo di risparmiare quelle aree che se irraggiate potrebbero indurre deficiti neurocognitivi a lungo termine nei pazienti pediatrici».

Domenico, hai mai fatto un’esperienza di ricerca all’estero?

«Sì, ho trascorso quasi 4 anni al Johns Hopkins Hospital di Baltimora, negli USA. Lavorare per un’istituzione di fama mondiale nella ricerca biomedica, in un contesto socio-culturale diverso da quello del mio paese di provenienza, è stata un’opportunità impagabile per accrescere la mia professionalità. Soprattutto, ho capito nel concreto l’importanza del lavoro di squadra per l’ottenimento di buoni risultati. Non mi ha lasciato niente di negativo. Certo, mi sono un po’ mancavate le abitudini e lo stile di vita del paese dove sono nato e cresciuto».

Perché hai scelto di intraprendere la strada della ricerca?

«Mi attraeva la prospettiva di una professione che potesse contribuire a migliorare la salute delle persone. Ma è stato proprio quando ho avuto la possibilità di lavorare alla Johns Hopkins University che ho davvero capito che la strada intrapresa era quella giusta».

E se non avessi fatto il ricercatore, cosa avresti scelto di fare?

«Il programmatore informatico: durante il lavoro di tesi ho acquisito capacità di programmazione molto ricercate nel mercato del lavoro. Ma per fortuna si è aperta per me la possibilità di conseguire un dottorato di ricerca».

Cosa ti piace di più del tuo lavoro?

«Che i risultati ottenuti possano andare a vantaggio di tutti. E la mancanza di routine nelle attività di tutti i giorni».

C’è qualche episodio particolare che ti ricordi nella tua vita professionale?

«Una volta negli Stati Uniti sono stato chiamato a parlare a un paziente italiano in sala operatoria per aiutarlo a risvegliarsi dall’anestesia».

Cosa ne pensi di chi (come gli antivax o i contestatori della sperimentazione animale) è contrario alla scienza per motivi ideologici?

«Penso che questi atteggiamenti seguano un po’ le mode del momento, e che le cause vadano individuate nella mancanza di consapevolezza dei benefici che la scienza ha apportato alla vita degli uomini specialmente negli ultimi 150 anni. Soprattutto però c’è una percepita (anche se non sempre reale) mancanza di trasparenza da parte di chi fa scienza nei confronti della società. Secondo me c’è bisogno di comunicare di più e meglio la scienza al grande pubblico».

Come reagiresti se un giorno un tuo figlio o figlia ti dicesse che vuole fare ricerca?

«Appoggerei la sua scelta e gli/le consiglierei di non demoralizzarsi quando i risultati ottenuti non sono quelli sperati».

Cosa fai nel tempo libero?

«Pratico corsa e calcio saltuariamente».

Il libro che più ti rappresenta?

«”Il vecchio e il mare” di Hemingway: mi fa pensare al tanto tempo passato da ragazzo in barca a pescare con gli amici nella mia Gallipoli».

La cosa di cui hai più paura.

«Un’invalidità permanente mia o di un mio caro: non so come reagirei».

Una “pazzia” che hai fatto.

«Troppe per ricordarle tutte!».

Quale personaggio famoso ti piacerebbe conoscere, e di cosa gli/le parleresti?

«Mi piacerebbe incontrare il prossimo presidente del consiglio, per fargli presente una volta in più che non c’è speranza di un futuro prospero per un Paese che non investe fortemente in ricerca e sviluppo».

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Agnese Collino
Agnese Collino

Biologa molecolare. Nata a Udine nel 1984. Laureata in Biologia Molecolare e Cellulare all'Università di Bologna, PhD in Oncologia Molecolare alla Scuola Europea di Medicina Molecolare (SEMM) di Milano, Master in Giornalismo e Comunicazione Istituzionale della Scienza all'Università di Ferrara. Ha lavorato nove anni nella ricerca sul cancro e dal 2013 si occupa di divulgazione scientifica


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