I polifenoli sono fitoestrogeni naturali e potrebbero contribuire alla protezione del sistema nervoso nella patologia neurodegenerativa: la ricerca di Manuela Leri
La malattia di Alzheimer non è solo una normale conseguenza dell'invecchiamento, ma si sviluppa a causa di un processo patologico che distrugge progressivamente i neuroni di alcune parti del cervello. Questa neurodegenerazione provoca il deterioramento delle principali funzioni cognitive, come la capacità di memoria, di apprendimento e di linguaggio. Le cause della malattia non sono ancora chiare, ma sembrano legate all’alterazione del metabolismo del peptide beta-amiloide (Aβ), che si accumula sotto forma di aggregati nel cervello dei pazienti. L'Alzheimer colpisce prevalentemente il genere femminile e alcuni studi hanno evidenziato che la neurodegenerazione nelle donne è più veloce che negli uomini, in particolare dopo la menopausa.
Questa caratteristica potrebbe essere legata all’azione neuroprotettiva degli estrogeni, la cui concentrazione diminuisce progressivamente con l’età. Manuela Leri è ricercatrice presso l’Università di Firenze e la sua ricerca si concentra su una gamma di molecole chiamate polifenoli, presenti nelle piante e nei frutti. Si tratta di fitoestrogeni naturali di cui l’olio extravergine d’oliva è particolarmente ricco, e che potrebbero avere un ruolo neuroprotettivo da studiare. Il progetto è sostenuto per tutto il 2022 da una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi.
Manuela, come nasce l'idea del vostro lavoro?
«Durante tutta la mia carriera mi sono occupata di malattie neurodegenerative e di come i polifenoli dell’olio potessero prevenirne l’insorgenza. Negli ultimi cinque anni mi sono dedicata in particolare alla malattia di Alzheimer: diversi studi epidemiologici hanno mostrato che le donne ne sono più colpite. Così ho deciso di approfondire questo aspetto e di valutare se i polifenoli dell’olio potessero agire anche su processi neuroprotettivi legati agli estrogeni».
Perché avete scelto di orientarvi su questa linea di ricerca?
«Le neuroscienze mi hanno sempre incuriosita. Sono stata fortunata perché ho trovato un laboratorio che mi permette di approfondire ogni mia curiosità sull’argomento. Purtroppo le malattie neurodegenerative vengono spesso considerate malattie dell’anziano, anche se non è proprio così. Inoltre siamo tutti destinati a invecchiare, quindi è doveroso occuparsi di queste patologie per garantire la massima qualità della vita. Nel mondo si stimano circa 46 milioni di persone colpite da demenze, il 50-60% delle quali soffrono di Alzheimer. Anche se la velocità di progressione può variare, oggi l’aspettativa media di vita dopo la diagnosi è dai tre ai nove anni. Il fenomeno ha assunto proporzioni tanto vaste da essere definito “una priorità di sanità pubblica” dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Infatti si prevede che a causa dell’invecchiamento della popolazione i casi potrebbero triplicare nel corso dei prossimi 30 anni e raggiungere una incidenza globale di 1 persona su 85 entro il 2050».
Quali sono gli aspetti poco noti da approfondire?
«Studio la malattia di Alzheimer a livello molecolare: con questo progetto vorrei capire se i polifenoli dell’olio extra vergine di oliva siano in grado di agire come gli ormoni estrogenici, che presentano un’attività neuroprotettiva».
Quali potrebbero essere, anche a lungo termine, le possibili applicazioni del tuo studio per la salute umana?
«Per alleviare i sintomi della menopausa, attualmente viene somministrata la terapia ormonale sostituiva. Essa però presenta degli effetti collaterali e non sembra in grado di prevenire l’insorgenza della malattia di Alzheimer. Lo scopo principale della mia ricerca è valutare il meccanismo con cui i polifenoli dell’olio agiscono a livello molecolare, così da avvalorare il loro eventuale utilizzo come nutraceutici per prevenirne l’insorgenza. Potrebbero anche essere usati al posto della terapia ormonale attualmente in uso, riducendone così gli effetti collaterali correlati».
Quali sono i risultati finora ottenuti?
«I dati hanno evidenziato che i polifenoli dell’olio sono capaci di attivare in vitro (in colture cellulari, N.d.R.) i meccanismi molecolari estrogeno-dipendenti e ridurre il danno indotto da ammassi proteici formati dal peptide beta-amiloide (Aβ), la componente proteica che costituisce gli ammassi neurofibrillari ritrovati nei pazienti affetti da Alzheimer».
Sei mai stata all’estero per un’esperienza di ricerca?
«Non sono mai stata, se non per corsi o congressi di breve periodo. La ritengo una scelta non unicamente lavorativa, ma anche di vita personale e privata. Inoltre andare all’estero non sempre implica un vantaggio lavorativo. Credo nella nostra ricerca e che si possano creare importanti collaborazioni internazionali anche rimanendo in Italia, cosa che io ho fatto. Ho collaborato con soddisfazione e ottenuto ottimi risultati con vari laboratori, tra cui quello della professoressa Ludmilla Morozova-Roche, dell’Università di Umea».
C’è un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare e uno invece da dimenticare?
«Ricordo benissimo quando ho ricevuto la mail in cui una rivista scientifica accettava la pubblicazione di un mio lavoro: è un’emozione che provo ogni volta che un articolo viene accettato. I momenti da dimenticare sono quando rifiutano un finanziamento, ad esempio. Del resto ogni progetto presentato è qualcosa in cui si crede, ma questo fa parte del gioco».
Come ti vedi fra dieci anni?
«Ricercatrice full-time. Spero di aver trasmesso, anche solo un po', la mia passione e il mio entusiasmo anche ai ragazzi che ho seguito in tirocinio. È piacevole vedere i giovani, a cui hai insegnato le basi, muovere i primi passi nel mondo della ricerca, magari vincendo un posto di dottorato».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«Mi piace il fatto che non finiamo mai di imparare. Ogni progetto, ogni esperimento è una continua scoperta e un piccolo passo avanti nella conoscenza».
E cosa invece eviteresti volentieri?
«La competizione e l’instabilità lavorativa».
Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?
«Sviluppo e conoscenza».
Manuela, cosa avresti fatto se non avessi fatto la ricercatrice?
«Forse l’insegnante, oppure il medico. Sinceramente non ci ho mai pensato. Scelsi il liceo scientifico perché ho sempre amato le materie scientifiche ed ero incuriosita dalla biologia e dalla chimica, in particolare. Sono stata fortunata, perché sono riuscita a fare il lavoro che volevo».
Qual è per te il senso profondo che ti spinge a fare ricerca e dà un significato alle tue giornate lavorative?
«Faccio ricerca medica di base e con il mio lavoro ho la sensazione di contribuire con piccoli passi a un’ipotetica cura. Ovviamente la mia ricerca è un granellino del deserto, perché c’è ancora tanto da scoprire e da capire. Però ci provo ogni giorno, con passione e dedizione, anche quando tutto sembra remare contro».
Pensi che ci sia un sentimento antiscientifico in Italia?
«Un po' sì, soprattutto in questo periodo a causa di un’informazione e una divulgazione errata, ad esempio sulla questione vaccinale».
Cosa fai nel tempo libero?
«Oggi molto poco, mi occupo di mio figlio di un anno. Appena posso, faccio pilates. Amo leggere e soprattutto viaggiare».
Se un giorno tuo figlio ti dicesse che vuole fare il ricercatore, come reagiresti?
«Lo sosterrei, come è giusto che sia, qualsiasi ambito di ricerca decida di prendere. Forse gli consiglierei di andarsene dall’Italia: purtroppo la ricerca qui non è ancora molto valorizzata».
Sei soddisfatta della tua vita?
«Sì, abbastanza soddisfatta».
C’è un libro o un film che più ti piace?
«“La custode di mia sorella”: ho pianto per la scelta della figlia, ma ho anche compreso la scelta dei genitori, soprattutto ora che sono mamma».
Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?
«Donare alla ricerca è un investimento per il nostro futuro. Grazie».
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