Alessandra Romano punta a fare chiarezza sui meccanismi che permettono al mieloma multiplo di avere ancor oggi un alto tasso di recidiva
Il mieloma multiplo è un tumore tipico dell’età avanzata, che colpisce circa 8 persone su 100 mila. Si sviluppa a partire dalle plasmacellule, importantissimi membri del sistema immunitario: si tratta delle cellule del sangue deputate a produrre anticorpi e a immetterli nella circolazione per poter contrastare un’infezione. Nel mieloma multiplo le plasmacellule crescono in maniera incontrollata, e stabiliscono una fitta rete di relazioni con altri tipi cellulari per sostenere la propria proliferazione e per difendersi dalle difese immunitarie. Nonostante sostanziali avanzamenti dal punto di vista terapeutico, l’alto tasso di recidiva rende il mieloma multiplo ad oggi ancora molto difficile da trattare.
In ogni cellula, i meccanismi preposti ad eliminare proteine in eccesso o indesiderate sono due: la degradazione attraverso un complesso enzimatico chiamato “proteasoma”, o la raccolta del carico da eliminare in una piccola porzione di membrana della cellula, all’interno della quale operare la distruzione. Questo secondo processo è chiamato “autofagia”, ed è talmente importante da essere valso il premio Nobel per la medicina nel 2016. In alcuni recenti lavori si è visto che la sopravvivenza delle cellule di mieloma multiplo dipende fortemente dall’autofagia, spinta ad alti ritmi: eppure un test clinico in cui è stato spento sia il meccanismo di autofagia che quello del proteasoma non ha sortito effetti marcati. Grazie a Fondazione Umberto Veronesi Alessandra Romano, medico catanese al lavoro presso l’IRCCS San Raffaele di Milano, porta avanti un progetto di ricerca che mira a comprendere meglio i meccanismi che regolano l’autofagia nel mieloma multiplo.
Alessandra, ci spieghi più nel dettaglio l’obiettivo del tuo progetto?
«In questo studio voglio determinare il contributo del sistema immunitario nella progressione del mieloma multiplo. Recentemente si è scoperto che in questo tipo di tumore aumentano anche i livelli di cellule soppressorie di derivazione mieloide (MDSCs), che inibiscono l’attività del sistema immunitario e sembrano quindi essere cruciali per la crescita tumorale e la refrattarietà alle cure. Noi ipotizziamo che sia l’azione delle MDSCs a stimolare il processo di autofagia nelle cellule di mieloma, rendendole così capaci di sviluppare resistenza ai farmaci (oltre che di sfuggire all’attacco di altre cellule dell’immunità). Il fatto che a livello clinico il blocco dell’autofagia non dia gli effetti terapeutici sperati può essere dovuto all’entrata in funzione di un meccanismo di compensazione: io vorrei cercare di esplorare più dettagliatamente le relazioni molecolari tra l’autofagia nelle cellule di mieloma e MDSCs per fare luce sugli eventi che permettono la crescita tumorale».
Quali sono dunque le prospettive che questo lavoro aprirà nell’ambito del mieloma multiplo?
«Nella nostra ricerca valuteremo la possibilità di ridurre la crescita di mieloma attraverso la modulazione del sistema immunitario. La comprensione delle interazioni responsabili dell’evasione dei tumori dal controllo del sistema immunitario permetterà inoltre di sviluppare terapie antitumorali più efficaci e meno tossiche».
Alessandra, com’è la giornata media di un medico-ricercatore?
«Piuttosto complessa, perchè bisogna appunto conciliare l’assistenza clinica agli esperimenti al bancone. Abbiamo momenti della giornata e incontri settimanali dedicati al confronto con gli altri colleghi medici per valutare lo stato di salute dei pazienti, le cui cellule tumorali vengono in contemporanea valutate in laboratorio».
Sei mai stata all’estero a fare un’esperienza di ricerca? Cosa ti ha spinto ad andare?
«Sì, negli Stati Uniti: ho trascorso due anni in Virginia per conseguire il dottorato, e successivamente sei mesi alla Johns Hopkins University a Baltimora. In entrambe le occasioni sono stata mossa dal bisogno di apprendere nuovi approcci tecnologici e metodologici utili per la mia ricerca».
Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
«Del sistema universitario americano ho ammirato l’apertura al contributo dei più giovani, alla loro creatività e spinta all’innovazione. Tuttavia, come medico formato in Italia, ho molte riserve sull’accesso alle cure tramite il sistema delle assicurazioni. Il mio ideale, per il quale sono tornata nonostante tante difficoltà, è di offrire cure avanzate a tutti i pazienti, indipendentemente dalla loro provenienza e censo. Grazie all’aiuto di realtà come Fondazione Veronesi abbiamo la possibilità di portare innovazione e crescita nel nostro Paese, facilitando l’accesso per i nostri pazienti a terapie innovative, ma vicino alle loro case e ai loro familiari».
Ricordi il momento in cui hai capito che la tua strada era quella della scienza?
«Ho perso la mia migliore amica per un linfoma di Hodgkin refrattario all’età di 12 anni. Aveva trascorso lunghi periodi fuori casa, dato che è stata costretta a recarsi in centri specializzati fuori dalla Sicilia. È stato allora che ho capito come sia necessario che le migliori cure oncologiche siano alla portata di tutti, e che siano prestate vicino a casa e ai propri cari. L’obiettivo della medicina è alleviare le sofferenze, fisiche e psicologiche; quello della scienza è di rendere possibile tale obiettivo. La ricerca di base di alta qualità può avere un impatto enorme sulla salute dell’uomo: ecco perché ho scelto questo percorso».
Quali sono i momenti della tua vita professionale che vorresti incorniciare o dimenticare?
«Incornicerei i referti di ognuno dei nostri pazienti che hanno raggiunto la remissione grazie a terapie innovative, basate su farmaci molecolari o modulazione del sistema immunitario. Vincere la scommessa contro la malattia oggi è possibile: speriamo che presto possa essere una realtà per la maggior parte dei malati. Tante volte purtroppo ancora non ce la facciamo: per questo dobbiamo studiare di più, capire di più. Che i nostri pazienti sappiano sempre che c’è un’intera comunità al loro fianco, che combatte una battaglia comune contro il cancro che dobbiamo assolutamente vincere».
La cosa che più ti fa arrabbiare.
«Chi crede all’ineluttabilità del destino. L’uomo è faber, nella scienza come nella medicina, e con il suo intelletto può modificare il corso delle cose».
Il libro che più ti piace o ti rappresenta.
«“Furore”, di John Steinbeck. La presa di coscienza di un popolo che scappa dalla miseria, la condivisione e solidarietà come strumento per il miglioramento della società… in ambito scientifico si chiamano networking e peer review!».
Un motto che ti sta particolarmente a cuore.
«Mi piace ricordare una raccomandazione del Prof. Alberto Mantovani ai suoi studenti: chi fa ricerca scientifica ha e deve avere un minimo di vanità e arroganza, perché non può non avere la presunzione di essere capace di contribuire all’innovazione e al progresso delle scienze, effettuando scoperte più o meno importanti. Ma al contempo deve avere l’umiltà di confrontarsi con gli altri, pazienti e colleghi. E con i fatti: bisogna ammettere la propria fallibilità ed essere umili nei confronti delle evidenze».