PD-1 è una proteina sfruttata dai tumori per “spegnere” le nostre linee difensive e riuscire a propagarsi. Michele Sommariva studia come disinnescare questo meccanismo
É ormai chiaro che il nostro sistema immunitario gioca un ruolo fondamentale nel combattere l’insorgenza di tumori. Le nostre linee di difesa si articolano nel sistema immunitario cosiddetto «innato», il primo a scendere in campo per proteggerci da un ampio spettro di pericoli, e nel sistema immunitario «adattativo», più sofisticato e addestrato contro specifici bersagli. In entrambi i casi, è importante che la risposta immunitaria sia strettamente controllata e che venga spenta quando non più necessaria, per evitare di danneggiare anche le nostre cellule sane. PD-1 è una proteina presente sulla superficie delle cellule immunitarie che, attraverso l’interazione con alcune molecole-ligando specifiche (PD-L1 e PD-L2), ne spegne la risposta quando non più richiesta. Tuttavia le cellule tumorali, esprimendo i ligandi di PD-1 ad alti livelli, riescono a sfruttare questo meccanismo di regolazione per spegnere le cellule immunitarie, evadere l’immunosorveglianza e riuscire quindi a sopravvivere. Comprendere più a fondo questi meccanismi per ripristinare il ruolo difensivo del sistema immunitario verso il tumore è l’obiettivo di Michele Sommariva (nella foto), biotecnologo lodigiano sostenuto dalla Fondazione Umberto Veronesi presso l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e prossimo ricercatore all'Università Statale di Milano. «Un incarico che mi si lusinga e che ho potuto raggiungere grazie anche al sostegno ricevuto dalla Fondazione Umberto Veronesi», esordisce.
Michele, parlaci in dettaglio del tuo progetto.
«PD-1 è una proteina prodotta da linfociti T (uno dei principali tipi di cellule dell’immunità adattativa, ndr) ormai “inattivi”. Di recente però è stata identificata anche nel sistema immunitario innato, dove il suo ruolo non è ancora stato del tutto chiarito. Innanzitutto cercheremo quindi di comprenderne la funzione, per stabilire se sia simile o dissimile a quella osservata per i linfociti T. In secondo luogo, tenteremo di comprendere meglio l’impatto di PD-1 nel trattamento anti-tumorale. Esistono numerose molecole in grado di stimolare l’immunità innata contro il tumore che, tuttavia, hanno come effetto negativo quello di far aumentare i livelli di PD-1 sulle cellule immunitarie. Le cellule tumorali, a loro volta, producono alti livelli di ligandi di PD-1, per spegnere le cellule immunitarie, in un circolo vizioso. É stato dimostrato che l’utilizzo di anticorpi che bloccano PD-1 è in grado di ripristinare una risposta antitumorale che si era sopita. Noi cercheremo quindi di determinare se la somministrazione di agenti bloccanti PD-1 possa aumentare l’efficacia terapeutica dei sopracitati immunostimolanti».
Quali prospettive apre il tuo lavoro per la salute umana?
«I risultati di questo progetto potrebbero potenziare gli effetti degli immunostimolanti nel trattamento oncologico, e potrebbero peraltro essere facilmente trasferiti nella pratica clinica poiché i farmaci impiegati sono già stati approvati per l’uso sull’uomo».
Sei mai andato all’estero a fare un’esperienza di ricerca?
«Sono stato al National Institutes of Health a Bethesda, negli Stati Uniti. Ci sono andato principalmente per imparare cose nuove e per migliorare il mio inglese, che in questo lavoro è fondamentale. Credo che trascorrere un periodo in un laboratorio estero sia una tappa fondamentale nel percorso di formazione di un ricercatore».
Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
«Da un punto di vista lavorativo, 5 articoli pubblicati e un sacco di conoscenze in più. Ma ad essere sincero l’aspetto più bello è stata quello di aver creato in un tempo relativamente breve delle amicizie fortissime che durano ancora oggi. Il lato negativo? Non essere riuscito ad andare alle Hawaii!».
Cosa ti piace di più della ricerca? E cosa invece eviteresti volentieri?
«Mi piace il fatto che si tratti di un lavoro mai monotono: ci sono sempre cose nuove da imparare. La parte che in assoluto preferisco è la formulazione delle ipotesi e l’analisi dei dati. Invece della routine di laboratorio, come ad esempio la coltivazione delle cellule, farei volentieri a meno».
Dove ti vedi fra dieci anni?
«Spero di essere su un’isola caraibica, steso al sole a sorseggiare un cocktail!».
Pensi che la scienza e la ricerca abbiano dei lati oscuri?
«Certo. Purtroppo ormai si fa scienza per pubblicare, non più per desiderio di conoscenza. Questo ha portato a episodi, per fortuna isolati) di “taroccamento” dei dati. Molto più spesso si cerca inoltre di mercificare la scienza».
Cosa fai nel tempo libero?
«Vado in palestra e esco con gli amici. Inoltre adoro leggere thriller e andare a teatro o al cinema. Benché mi piaccia andare in discoteca, apprezzo una chiacchierata davanti ad un caffè o a un buon calice di vino. Un tempo suonavo il pianoforte: oggi per via della mancanza di tempo solo ogni tanto».
Se un giorno un tuo figlio o figlia ti dicesse che vuole fare il ricercatore, cosa gli diresti?
«Di andare a studiare economia e commercio».
Quando è stata l’ultima volta che ti sei commosso?
«Non sono un duro come Walker Texas Ranger, ma non mi ricordo l’ultima volta che ho pianto».
Qual è la cosa di cui hai più paura?
«Delle malattie che causino paralisi o che in qualche modo possano inficiare la mia autosufficienza».
La cosa che ti fa ridere a crepapelle.
«I film di Fantozzi».
Parlaci di un ricordo a te caro di quando eri bambino.
«Per rimanere in tema di scienza, ricordo che una volta ho mischiato tutte le sostanze contenute nella scatola del piccolo chimico. Poi con quella brodaglia ho innaffiato i fiori che mia madre aveva sul balcone. Sono morti tutti, mi domando ancora il perché…».
Con quale personaggio famoso vorresti andare a cena, e cosa ti piacerebbe chiedergli?
«Mi piacerebbe andare a cena con Luciana Littizzetto. Le chiederei semplicemente di farmi ridere».