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Chiara Segré
pubblicato il 05-04-2016

Come vincere la resistenza ai farmaci nel mieloma multiplo



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Daniela Eletto è una delle scienziate sostenute dalla Fondazione Veronesi. L'anno scorso è stata eletta come migliore ricercatore del Children’s Hospital di Philadelphia. Il suo lavoro nella lotta al mieloma multiplo

Come vincere la resistenza ai farmaci nel mieloma multiplo

Trentacinque anni, radici calabresi (è nata a Rossano, provincia di Cosenza) e formazione campana (laurea in farmacia e dottorato di ricerca in scienze farmaceutiche all’università di Salerno), Daniela Eletto (nella foto) oggi lavora come ricercatrice - grazie a una borsa erogata nel 2016 dalla Fondazione Umberto Veronesi - per identificare i meccanismi alla base della «resistenza» che in alcuni casi portano il mieloma multiplo a non rispondere più alle terapie. Il suo progetto di ricerca viene condotto sotto l’egida del professor Guido Iaccarino (Università di Salerno).

Daniela, aiutaci a capire meglio in cosa consiste la tua attività.

«Una delle limitazioni dell’attuale trattamento terapeutico del mieloma multiplo è la resistenza ai farmaci. Nonostante siano stati testati efficaci approcci terapeutici efficaci basati su differenti target, è ancora alta la percentuale di pazienti che sviluppano resistenza ai farmaci usati per curare il mieloma. Tra i più efficaci degli ultimi anni si annovera il Bortezomib, un inibitore del proteosoma che sembra indurre anche stress da reticolo con conseguente morte cellulare per apoptosi. Sfruttando questo suo modus operandi, nel progetto finanziato dalla Fondazione Umberto Veronesi propongo di studiare ed eventualmente modulare l’attività di una proteina del reticolo endoplasmatico: IRE1. Essa svolge diverse funzioni, ma una in particolare è conosciuta come favorente la sopravvivenza. La mia ipotesi è quella di testare e verificare se questa attività di IRE1 sia uno dei fattori di resistenza dei farmaci e se è possibile modularla per favorire l’effetto del Bortezomib. Identificare uno dei processi responsabili della resistenza del mieloma multiplo apre nuove prospettive e speranze per il trattamento di questo tumore».

Come si svolge la tua giornata-tipo in laboratorio?

«La mia giornata è programmata in anticipo. In genere organizzo la settimana a seconda degli esperimenti da effettuare, in modo da ottimizzare i tempi. Appena arrivo in laboratorio, verso le nove, cerco di avviare gli esperimenti che richiedono maggiore attenzione e tempo e relego al pomeriggio attività meno laboriose: come la preparazione di soluzioni e colture cellulari».

Hai mai fatto un’esperienza di lavoro all’estero?

« Sono stata diversi anni al The Children’s Hospital di Philadelphia, nel laboratorio diretto dal professor Yair Argon (direttore del dipartimento di patologia e medicina di laboratorio, ndr). Quando decisi di partire per gli Stati Uniti ero una dottoranda con nessuna esperienza nel campo biologico. La curiosità e la voglia di apprendere ancora mi hanno spinto oltreoceano».

Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

«Un vasto bagaglio di esperienza: sia in termini professionali sia personali. L’eredità più pesante che ho portato con me è il modus pensandi del ricercatore indipendente. Devo questa conquista al mio responsabile, che coi suoi metodi - seppur severi e a volte discutibili - mi ha insegnato cosa significhi fare ricerca. Il risvolto negativo della medaglia è stata la distanza dagli affetti e la difficoltà del vivere in un Paese straniero con lingua straniera. Ho cercato di colmare la mancanza dei miei cari lavorando moltissimo in laboratorio, compresi i weekend e le festività: compresi i giorni di Natale e Pasqua».

Perché hai scelto di intraprendere la strada della ricerca?

«Quando mi iscrissi alla facoltà di farmacia non avevo idea di cosa fosse la ricerca né tantomeno aspiravo a farla. L’illuminazione avvenne il giorno in cui ho messo piede in un laboratorio per via della tesi sperimentale. Da lì in poi è scattata una passione per questo mestiere che ancora dura nel tempo, intatta. La vocazione per la ricerca ha soppiantato il lavoro di farmacista, sicuro e comodo, che provai ad esercitare subito dopo la laurea».

Un momento da incorniciare e uno da dimenticare della tua vita professionale: raccontaceli.

«Uno dei momenti da ricordare risale allo scorso anno, quando sono stata eletta come migliore ricercatore del Children’s Hospital of Philadelphia per il 2015. Momenti da dimenticare, invece, ce ne sono stati tanti e mi riferisco a tutti gli esperimenti falliti ed i progetti mai portati a termine».

Dove ti vedi tra dieci anni?

«Alla guida di un laboratorio di ricerca in Italia».

Cosa ti piace di più della ricerca?

«La continua sfida. Il fatto di non essere mai scontata e banale, ma sempre stimolante».

E cosa invece eviteresti volentieri?

«La precarietà della posizione che non mi dà la serenità di dedicarmi totalmente alla ricerca».

Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?

«Un connubio indissolubile: senza la ricerca, la scienza sarebbe conosciuta solo parzialmente».

Quale figura ha ispirato la tua vita professionale?

«Considero le donne in generale fonte di grande ispirazione, per la grande capacità di essere poliedriche e produttive».

Cosa avresti fatto se non avessi fatto il ricercatore?

«La farmacista triste».

Se dovessi scommettere sui filoni di ricerca biomedica che fra cinquant’anni avranno prodotto un concreto avanzamento in termini di innovazione per la salute, su quali punteresti?

«Lo dico senza esitazioni: le cellule staminali e la terapia genica».

Al di là dei contenuti scientifici, qual è per te il senso profondo che ti spinge a fare ricerca e dà un significato profondo alle tue giornate lavorative?

«Il pensare di contribuire, goccia dopo goccia, al miglioramento della specie umana».

Pensi che la scienza e le ricerca abbiano dei «lati oscuri»? E a chi spetterebbe affrontarli: scienziati, politici, media o cittadini?

«Il lato oscuro della ricerca è sempre lo stesso: lo scarso finanziamento e il fatto che le posizioni di prestigio siano occupate quasi esclusivamente da uomini. I politici dovrebbero intervenire per destinare una quantità maggiore di fondi alla ricerca e bandire posti di lavoro esclusivamente per il sesso femminile».

Viviamo in un’epoca in cui cresce la quota di persone che si dichiarano contrarie alla scienza per motivi «ideologici»: quali sono le cause del sentimento antiscientifico e come si può contrastare?

«La storia sui danni associati ai vaccini ha quasi del ridicolo. Nessuno dei paper pubblicati, considerando che alcuni sono stati anche ritirati, mi ha convinto su base scientifica dell’eventuale legame tra il vaccino trivalente e l’insorgenza dell’autismo. Diverso è invece il discorso della sperimentazione animale: non sono contraria, ma vorrei che ci fosse più criterio quando si sacrificano animali e vorrei che le domande biologiche fossero più solide e valide prima di investire migliaia di euro in topi, ratti e maiali da laboratorio».
 

@ChiaraSegre

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Chiara Segré
Chiara Segré

Chiara Segré è biologa e dottore di ricerca in oncologia molecolare, con un master in giornalismo e comunicazione della scienza. Ha lavorato otto anni nella ricerca sul cancro e dal 2010 si occupa di divulgazione scientifica. Attualmente è Responsabile della Supervisione Scientifica della Fondazione Umberto Veronesi, oltre che scrittrice di libri per bambini e ragazzi.


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