Studiare come le cellule di cancro alla prostata interagiscono col midollo osseo chiarire lo sviluppo delle metastasi ossee: la ricerca di Giuseppe Taurino
Il cancro della prostata è il tumore più diffuso nella popolazione maschile, ma se riconosciuto precocemente è uno di quelli con i tassi di sopravvivenza più alti a cinque anni dalla diagnosi. Esistono tuttavia forme più aggressive, in grado di invadere tessuti e organi circostanti: le ossa sono la sede più probabile per le metastasi, ma i meccanismi che portano ai diversi tipi di lesioni non sono ancora completamente chiariti.
Giuseppe Taurino è ricercatore presso l’Università degli Studi di Parma, dove studia le interazioni tra cellule cancerose e una particolare popolazione di cellule staminali del midollo osseo - le cellule mesenchimali stromali midollari (o MSC) - da cui derivano le cellule che “creano” l’osso (osteoblasti). Durante il progetto si studieranno alcuni processi legati allo scambio di aminoacidi e metaboliti, già noti nei tumori del sangue, per capire se siano implicati anche nella formazione delle metastasi ossee del cancro alla prostata. Il suo progetto sarà sostenuto per il 2024 da una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi.
Giuseppe, come nasce l'idea del vostro lavoro?
«Grazie a studi precedenti sul ruolo del midollo osseo nei tumori del sangue abbiamo dimostrato che, tramite lo scambio di aminoacidi e altri metaboliti, le cellule di leucemia linfoblastica acuta e di mieloma multiplo sono in grado di alterare il “comportamento” metabolico delle cellule mesenchimali stromali midollari (o MSC): questo cambiamento complessivo delle reazioni cellulari le spinge a comportarsi diversamente. Le MSC sono in grado di maturare in diversi tipi di cellule, come quelle che formano l’osso o quelle adipose. In questo modo il tumore crea un “microambiente” che ne favorisce la crescita e provoca cambiamenti del tessuto, causando alcuni dei sintomi presenti nei pazienti».
Come si legano queste scoperte al vostro lavoro sui tumori prostatici?
«Ad esempio, nel mieloma questi meccanismi contribuiscono alle lesioni ossee dolorose tipiche della malattia. Ci siamo chiesti se questi stessi processi, ben conosciuti nei tumori del sangue, potessero essere importanti anche nelle metastasi ossee dei tumori solidi, come appunto il cancro alla prostata. Il carcinoma prostatico è sembrato un candidato ideale per il nostro studio, data la sua diffusione e l'importanza clinica delle sue localizzazioni scheletriche».
Perché avete scelto questa linea di ricerca?
«Il principale sito metastatico del cancro della prostata è l’osso. Le metastasi ossee sono lesioni difficilmente trattabili, che compromettono pesantemente la qualità della vita del paziente. Individuare i meccanismi metabolici che favoriscono la crescita della popolazione neoplastica prostatica nella nicchia ossea ci è sembrato quindi un obiettivo di grande importanza sia da un punto di vista scientifico sia pratico».
Quali sono gli aspetti poco conosciuti?
«Diversi studi hanno dimostrato alterazioni metaboliche presenti nel carcinoma prostatico primitivo, mentre le caratteristiche metaboliche delle metastasi e i rapporti tra cellule cancerose e popolazioni cellulari midollari sono state studiate molto poco. Sulla base delle nostre esperienze nei tumori del sangue, cercheremo di identificare i meccanismi metabolici e genetici che supportano la sopravvivenza e la proliferazione delle cellule maligne nell'ambiente midollare e di alterare il tessuto osseo, sino a provocare fratture e altri tipi di lesioni».
Come intendete portare avanti il vostro progetto quest’anno?
«Studieremo le interazioni tra cellule di cancro prostatico metastatico e MSC, coltivando insieme le due popolazioni cellulari. Utilizzeremo ambienti sperimentali particolari, a bassa pressione di ossigeno, in modo da simulare le condizioni del midollo osseo in vivo. Valuteremo come queste interazioni modificano il metabolismo e l’espressione genica (i geni accesi e spenti, NdR) nelle cellule tumorali e del microambiente. Cercheremo inoltre di individuare i metaboliti coinvolti e i meccanismi utilizzati dal tumore».
Quali sono le prospettive a lungo termine legate alla vostra ricerca?
«Dopo aver caratterizzato gli scambi metabolici tra le cellule metastatiche del cancro alla prostata e le cellule stromali del midollo osseo, tenteremo di inibirli per verificare se ciò rallenti o blocchi la crescita delle cellule tumorali. In questo caso, si potrebbero sviluppare terapie mirate non direttamente contro le cellule cancerose, ma piuttosto per "tagliare i rifornimenti" al tumore rallentandone la crescita e prevenendo i danni ossei. Per quanto riguarda il mieloma multiplo, stiamo testando l'efficacia di un meccanismo simile in un modello animale, grazie a un finanziamento ministeriale. Il carcinoma della prostata potrebbe essere il prossimo obiettivo».
Sei mai stato all’estero per un’esperienza di ricerca?
«Si, ho fatto due esperienze di ricerca all’estero. Durante la laurea magistrale ho partecipato al programma Erasmus frequentando per tre mesi il laboratorio MINT UMR-S1066 dell’Università di Angers, in Francia. Durante il dottorato sono stato tre mesi presso il Cancer Research UK Scotland Institute di Glasgow, centro di eccellenza nella ricerca sul metabolismo tumorale. Entrambe le volte sono stato spinto dalla voglia di mettermi in gioco, affrontare nuove sfide e conoscere realtà diverse che potessero ampliare i miei orizzonti scientifici».
Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
«Entrambe le esperienze sono state per me estremamente formative, sia dal punto di vista professionale sia da quello personale. Dal punto di vista lavorativo, ho avuto la possibilità di imparare molto ed entrare in contatto con gruppi di ricerca con i quali tuttora sono in atto delle collaborazioni. In particolare, in Scozia ho avuto la possibilità di interagire con ricercatori provenienti da tutto il mondo e di ampliare le mie conoscenze sul metabolismo di tumori differenti. Dal punto di vista personale, i mesi trascorsi all’estero non sono stati semplici e mi hanno permesso di capire definitivamente che, seppur sempre favorevole a esperienze di questo tipo, il legame con il mio Paese e la mia famiglia è così forte che non riesco a immaginare un futuro lontano dall'Italia».
Giuseppe, perché hai scelto di diventare un ricercatore?
«Sono una persona determinata che non si accontenta e cerca sempre di raggiungere gli obiettivi prefissati nel migliore dei modi. La ricerca scientifica ci pone davanti sempre nuove sfide e obiettivi, obbligandoci a dover dare una spiegazione a meccanismi ancora non noti. Per me tutto questo è molto avvincente e stimolante».
C’è un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare e uno invece che vorresti dimenticare?
«Vorrei incorniciare il momento in cui la Fondazione Umberto Veronesi mi ha comunicato di essere risultato vincitore di una Fellowship: ha significato molto per me. Un periodo difficile - che non definirei da dimenticare, ma piuttosto da ricordare - è stato quello successivo al conseguimento del dottorato, durante il quale ho attraversato momenti di titubanza e incertezza sul mio futuro nella ricerca».
Dove ti vedi fra dieci anni?
«Mi vedo in Italia, spero alla guida di un gruppo di ricerca composta da giovani ricercatori entusiasti e determinati, con i quali condurre insieme intriganti ricerche scientifiche e con cui ottenere importanti finanziamenti».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«Mi affascina studiare e cercare di capire i meccanismi metabolici e cellulari che possano spiegare un processo fisiologico, ma soprattutto patologico. Mi piace il fatto che la ricerca è come un grande labirinto: sta al ricercatore trovare la strada giusta per raggiugere la porta di uscita e capire cosa si nasconde dietro. Per esempio, la biologia dei diversi tumori è una delle cose più interessanti e stimolanti da studiare per un ricercatore, tenendo sempre in mente l’elevata sofferenza che queste malattie causano a chi ne è colpito e ai familiari».
E cosa invece eviteresti volentieri?
«L'incertezza del futuro, l'instabilità contrattuale e il lungo precariato che ogni ricercatore è obbligato ad affrontare e che spesso condizionano le scelte personali, portando a una competizione malsana tra colleghi e a un ambiente di lavoro non sempre sereno».
Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?
«Progresso e speranza: solo attraverso la ricerca abbiamo la possibilità di scoprire ciò che ancora non sappiamo».
C’è una figura che ti ha ispirato nella tua vita professionale?
«La figura che mi ha ispirato è stato un docente di patologia generale che ho incontrato lungo il mio percorso. Nutro una profonda stima nei suoi confronti dal punto di vista professionale e umano. Mi ha mostrato come svolgere questo lavoro con passione, perseveranza e curiosità, rimanendo sempre molto disponibile con colleghi e studenti».
Cosa avresti fatto se non avessi fatto il ricercatore?
«Credo che avrei cercato comunque di lavorare in ambito scientifico, forse in un laboratorio di analisi cliniche o magari come medico».
Pensi che ci sia un sentimento antiscientifico in Italia?
«Penso che il sentimento antiscientifico sia ancora presente in Italia e la gente non riesca a fidarsi completamente della scienza e dei ricercatori. Una prova è lo scetticismo che c’è stato nei confronti dei vaccini contro il SARS-CoV-2. Credo che questo sentimento antiscientifico sia dovuto anche alla scarsa valorizzazione della figura del ricercatore nella nostra società. Iniziative a sostegno dell'educazione scientifica potrebbero certamente contribuire a sensibilizzare la popolazione su queste tematiche».
Cosa fai nel tempo libero?
«Mi piace viaggiare insieme a mia moglie, scoprire nuovi paesi e nuove culture. È qualcosa che mi affascina molto e a cui spero di poter dedicare più tempo in futuro».
Quando è stata l’ultima volta che ti sei commosso?
«Nell’ultimo anno gli episodi che mi hanno fatto maggiormente emozionare sono stati il mio matrimonio e la notizia di aver vinto la Fellowship della Fondazione Umberto Veronesi, entrambi importanti traguardi e punti di partenza per nuove sfide».
C’è una cosa che vorresti assolutamente fare almeno una volta nella vita?
«Vorrei visitare più nazioni africane possibili. Sono stato di recente in quel continente e mi è letteralmente entrato nel cuore: ci sono colori fantastici, paesaggi mozzafiato e persone di un’umanità disarmante».
Sei soddisfatto della tua vita?
«Sono soddisfatto del percorso personale e professionale che ho fatto, di come ho affrontato gli ostacoli e di come questi mi hanno fatto crescere, ma ci sono ancora obiettivi importanti da raggiungere, che spero mi renderanno ancora più felice».
Qual è la cosa che più ti fa arrabbiare?
«Le ingiustizie e la mancanza di meritocrazia».
Hai un ricordo a te caro di quando eri bambino?
«I pomeriggi passati con i miei nonni paterni: i giochi, le attività che facevo con loro e l’amore che mi hanno trasmesso».
Perché è importante donare a sostegno della ricerca scientifica?
«Donare per la ricerca scientifica è fondamentale, è segnale di progresso e speranza per un futuro migliore per noi e i nostri figli, in cui malattie ancora incurabili potranno essere affrontate. Ad esempio in ambito oncologico c’è la necessità di avere terapie antitumorali sempre più personalizzate e con ridotti effetti collaterali rispetto alla generica chemioterapia».
Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?
«Grazie! È grazie a chi dona e crede nella ricerca se oggi tanti giovani ricercatori come me hanno la possibilità di mettersi in gioco e di portare avanti le proprie idee, sperando un giorno di poter restituire l’investimento fatto con importanti risultati».