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Laura Costantin
pubblicato il 02-09-2019

Inibire le cellule staminali tumorali per combattere il glioblastoma



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Le cellule staminali tumorali possono costituire un «serbatoio» che alimenta il glioblastoma. Elena Rampazzo punta a capire come bloccarle per arrestarne la diffusione

Inibire le cellule staminali tumorali per combattere il glioblastoma

Il glioblastoma è un tumore raro e particolarmente aggressivo che colpisce il cervello, con prognosi spesso infausta. Questa neoplasia presenta resistenze ai trattamenti convenzionali (chirurgia, radioterapia e chemioterapia) e, nella maggior parte dei casi, i pazienti vanno incontro a ricadute. Secondo studi recenti, la presenza di resistenze e recidive sarebbe attribuibile alle cosiddette cellule staminali tumorali, una frazione di cellule presenti all’interno della massa cancerogena in grado di dividersi e alimentare continuamente il tumore. Affinché una terapia abbia successo, quindi, è necessario colpirle e impedire loro di proliferare. Grazie al sostegno di una borsa di Fondazione Umberto Veronesi, Elena Rampazzo, biotecnologa dell’Università di Padova, studia l’efficacia di farmaci in grado di impedire alle cellule di glioblastoma di «trasformarsi» in staminali tumorali.

Elena, raccontaci del tuo progetto: che connessione esiste tra staminali e tumori?

«Le cellule staminali sono generalmente considerate una risorsa preziosa in grado di rifornire l’organismo di tutte le cellule di cui ha bisogno. Tuttavia, queste cellule hanno anche un lato oscuro e potrebbero contribuire ad alimentare i tumori. L’aggressività di molte neoplasie, come nel glioblastoma, è associata alla presenza di queste cellule, che sarebbero responsabili della formazione di metastasi, recidive e resistenza alle terapie».

 

In che modo?

«Le cellule di glioblastoma sarebbero in grado di de-differenziarsi, ovvero perdere le caratteristiche delle cellule mature e acquisire le capacità tipiche delle staminali. In un precedente lavoro condotto dal mio gruppo di ricerca abbiamo dimostrato che una specifica proteina, TCF4, è in grado di modulare la proliferazione e la differenziazione delle cellule di glioblastoma e sarebbe pertanto coinvolta in questo processo».

 

Sarebbe possibile agire sul funzionamento di questa proteina?

«Studi precedenti effettuati sul tumore del colon hanno individuato tre farmaci in grado di inibire TCF4. Dati preliminari del nostro laboratorio hanno confermato che questi farmaci sono in grado di bloccare la proliferazione anche delle cellule di glioblastoma. Il passo successivo sarà valutare i loro effetti di sulla sopravvivenza cellulare».

 

Su quali aspetti focalizzerai la tua analisi?

«L’efficacia di questi tre farmaci sarà valutata in base a tre parametri: l’azione nel modulare l’attività di TCF4, la capacità di colpire le cellule staminali tumorali e l’effetto sulla sopravvivenza delle cellule di glioblastoma».

 

Quali sono le possibili applicazioni per la salute umana?

«A oggi, il glioblastoma è uno dei tumori più difficili da trattare e la sopravvivenza media è di solo 17 mesi dalla diagnosi. La comprensione dei meccanismi alla base della resistenza alle terapie può consentire di sviluppare trattamenti capaci di agire sulle cause molecolari responsabili dell’intrinseca aggressività di questi tumori». 

Elena, nel tuo percorso di ricerca sei mai stata all’estero?

«Sì, durante il dottorato sono stata negli Stati Uniti presso la divisione di ematologia e oncologia del Boston Children’s Hospital. Una bellissima esperienza che mi ha arricchito sia professionalmente sia come persona. Ho imparato nuove tecniche e metodi di ricerca e ho lavorato con colleghi da tutte le parti del mondo, ciascuno con la propria cultura e il proprio modo di pensare».

 

Come hai maturato la decisione di intraprendere la strada della ricerca?

«Le scienze sono sempre state la mia passione. Ricordo fin da piccola il fascino che provavo per la crescita delle piante, per le muffe e per le stelle. Quando ho scoperto il corpo umano, la curiosità e la voglia di conoscere tutti i meccanismi del suo funzionamento non mi hanno mai più abbandonato e la mia scelta è stata inevitabile. Ma ero tentata anche dall’astrofisica».

 

Raccontaci un momento della tua vita professionale da incorniciare e uno da dimenticare.

«Il momento più bello è stato sicuramente il giorno in cui ho conseguito il dottorato, un duro percorso in cui dato tutta me stessa e che ho concluso con grande soddisfazione. Assolutamente da dimenticare un Natale in cui, a causa di un guasto meccanico, abbiamo perso centinaia di campioni raccolti in anni di lavoro. Una vera e propria apocalisse».

 

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Lo spirito di scoperta e di innovazione. Quel connubio perfetto tra rigore scientifico e creatività».

 

Scienza e ricerca come progresso. È questo che ti spinge e ti motiva ad andare avanti giorno dopo giorno?

«Sì. L’uomo, sin dagli albori della storia, ha sempre cercato di accrescere le sue conoscenze e di trasformarle in tecnologia e innovazione. Soprattutto in ambito oncologico, bisogna conoscere a fondo il proprio nemico per sviluppare le armi necessarie a distruggerlo».

 

Elena, fuori dal laboratorio quali sono i tuoi hobby?

«Le mie due grandi passioni al di fuori del lavoro sono la cucina e la moda. Cucinare mi rilassa e vi dedico una buona fetta del mio tempo libero. Sono specializzata nel pesce e ora sto imparando anche l’arte del sushi. La moda è l’altra mia grande passione. Mi piace selezionare i tessuti e ideare i modelli per i miei capi d’abbigliamento. Ho la fortuna di avere come amiche due bravissime sarte che realizzano tutto ciò che immagino».

 

Hai mai fatto qualche «pazzia»?

«Ho preso da sola un autobus decisamente sgangherato per andare da Beirut a Baalbek, nella Valle della Beqa' in Libano. È stata un’esperienza magnifica, ma a posteriori riconosco che mi è andata molto bene».

 

Una cosa che vorresti assolutamente fare almeno una volta nella vita.

«Vedere i templi di Angkor Wat in Cambogia e fare un tour in Antartide».

 

Quanto conta per te la famiglia?

«Tantissimo. Ho un compagno da 13 anni e una bellissima famiglia molto unita: mamma, papà e soprattutto mia sorella e mio fratello. Ammetto di essere stata un po' viziata e infatti la mia più grande paura è di rimanere sola».

C’è qualche ricordo che ti è particolarmente caro di quando eri bambina?

«Papà che di notte, al freddo, mi insegna le stelle che compongono l’esagono invernale e mamma che mi compra il magnum bianco dell’Algida dopo le cure termali per la sinusite».



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