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Redazione
pubblicato il 17-03-2014

I malati di mente sono un pericolo sociale?



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La malattia non deve essere uno stigma che marchia un paziente per tutta la vita, è antiscientifico: spiegano gli psichiatri. E anche rinchiuderli nei manicomi giudiziari, che da anni dovrebbero essere chiusi, non risolve il problema

I malati di mente sono un pericolo sociale?

Che cos’è  la «pericolosità sociale»?  Cambiando il codice Zanardelli, il concetto fu introdotto nel 1930 dal Codice Rocco. Ci sono state da allora infinite dissertazioni su questo concetto, che è stato esteso anche a persone con disturbo mentale che non hanno mai commesso una violenza o un delitto, ma che «potrebbero» commetterlo, in omaggio alla visione lombrosiana dell’uomo delinquente.

Peppe Dell’Acqua, salernitano, classe1947, psichiatra, ha avuto la fortuna di iniziare a lavorare con Franco Basaglia fin dai primi giorni triestini, partecipando all’esperienza di trasformazione e chiusura dell’Ospedale Psichiatrico. Vive tuttora a Trieste, dove fino a due anni fa, prima di andare in pensione, è stato direttore del Dipartimento di Salute Mentale. A Trieste la riforma di Basaglia si è realizzata senza se e senza ma. Con strutture che restano aperte 24 ore, con l’immediato intervento di équipes di esperti in caso di crisi, con una rete di appartamentini protetti, con l’impiego delle persone con disturbo mentale in lavori normalissimi e remunerati, come la conduzione di strutture alberghiere. E succede anche a Imola, a Gorizia, a Roma con la straordinaria esperienza di Santa Maria della Pietà, e in altre realtà italiane di cui si parla troppo poco.

 

PERICOLOSITA’ SOCIALE

Peppe Dell’Acqua sul concetto di pericolosità sociale si arrabbia con determinazione: «La pericolosità sociale non merita neanche di essere criticata. E’ una chimera, un qualcosa che si presume, ma che di fatto manca. E la presenza della malattia mentale o di un suo disturbo surrogato non può affiancare quella persona alla pericolosità sociale più di quanto non ne potrebbe essere affiancato uno di noi.  Voglio ricordare un’importante sentenza della Corte Costituzionale, la n.139 del 1982. La sentenza stabilisce che la pericolosità sociale non può essere definita una volta per tutte, come se fosse un attributo naturale di quella persona e di quella malattia.

Non ha nessuna scientificità associare la pericolosità sociale alla “malattia mentale” pregressa, presente o presunta, sulla base di immagini della malattia legate a cronicità, ricorsività, processualità; legata all’incontenibile ricorrenza di comportamenti disturbanti, insubordinati, trasgressivi, eccentrici, bizzarri, incontrollabili… O ancora, per la povertà di reti sociali di sostegno, per la carenza e fragilità dell’offerta di servizi sociali o sanitari, per la “irriducibilità” di quei comportamenti in schemi rigidi di riconoscimento e di competenze: tossico, matto, delinquente, perverso, povero, disturbatore.»

 

LA MALATTIA NON DEV’ESSERE UNO STIGMA

Per Peppe Dell’Acqua la malattia non è e non deve essere uno stigma:  «La condizione di disturbo mentale non è più rappresentabile come uno stato incomprensibile, permanente, immutabile, il cui destino è la cronicità, il deterioramento, l’inguaribilità. Rappresentare così la persona con disturbo mentale è fuorviante e discriminatorio. E porta all’abbandono, alla non-cura. Andando contro l’articolo 32 della Costituzione sul diritto alla salute, che vale per tutti, dal Monte Bianco a Lampedusa.»   

E’ ancora la lezione di Franco Basaglia. Il giovane costituzionalista Daniele Piccione ha scritto un libro («Il pensiero lungo», edizioni Alphabeta Verlag) in  cui esamina la vita e le opere di Franco Basaglia alla luce della Costituzione. Perché Basaglia, che nella sua breve vita si è battuto perché i malati di mente riconquistassero i loro diritti di cittadini, era convinto che si doveva agire per cambiare il futuro.  Lo psichiatra condivideva con Piero Calamandrei la convinzione che «la Carta costituzionale potesse essere un documento presbite, che guardasse in avanti e lontano e poi, ancora oltre, che dovesse assumere le vesti dell’atto di convivenza civile rappresentando una “polemica contro la realtà”»

A.Cr.

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