Un adulto su dieci positivo all'Hiv non risponde alle terapie. Le maggiori criticità nei Paesi in via di sviluppo. La soluzione in un nuovo farmaco?
Funzionano, motivo per cui l'Aids non è più da considerare una malattia letale. Ma i farmaci che si utilizzano contro le infezioni provocate da Hiv non sono esenti dai passaggi a vuoto. Nei confronti degli antiretrovirali, infatti, l'organismo di un paziente può sviluppare una resistenza che li rende vani e che complica il percorso di convivenza con l'infezione. L'evenienza, a leggere le conclusioni di un report dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, è tutt'altro che rara. In una persona su dieci, più o meno precocemente rispetto all'inizio delle cure, l'Hiv diverrebbe in grado di eludere l'azione dei farmaci e rendere così vana anche l'azione di quelli che hanno cambiato il decorso di una malattia quasi sempre letale, fino a vent'anni fa.
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UN PAZIENTE SU 10 NON RISPONDE ALLE CURE
Il dossier evidenzia come negli ultimi quattro anni, in 12 Paesi (Argentina, Eswatini, Cuba, Guatemala, Honduras, Namibia, Nepal, Nicaragua, Papua New Guinea, Sud Africa, Uganda, Zimbabwe), siano stati registrati «livelli allarmanti e inaccettabili» di resistenza ai farmaci nel dieci per cento dei pazienti. Il problema ha riguardato soprattutto due farmaci che costituiscono la spina dorsale del trattamento antiretrovirale: efavirenz e nevirapina. «Abbiamo superato il limite», afferma Massimo Ghidinelli, specialista in malattie infettive della Pan American Health Organization di Washington. Complessivamente, il problema è risultato più frequente tra le donne (12 per cento), rispetto agli uomini (8 per cento). Inoltre particolarmente preoccupante, secondo il rapporto, è l'alto livello di resistenza rilevato nei neonati dell'Africa sub-sahariana contagiati dalle mamme (trasmissione «verticale»).
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LA RIVOLUZIONE DEGLI ANTIRETROVIRALI
Nei primi anni '80, la diagnosi di Aids equivaleva a una condanna e l’aspettativa di vita media era ridotta al minimo. Il decorso della malattia è stato cambiato dallo sviluppo di farmaci antiretrovirali sempre più efficaci. Il principio che è alla base del loro funzionamento è il seguente: interrompendo selettivamente i meccanismi che il virus utilizza per replicarsi e infettare nuove cellule, si contiene la portata dell'infezione. Con gli antiretrovirali, dunque, non si guarisce dalla malattia, ma si prepara il terreno alla convivenza con l'infezione. Se all'inizio le persone sieropositive erano costrette ad assumere un «cocktail» composto da 10-15 compresse al giorno, oggi tutte le componenti vengono condensate in un’unica compressa. E con meno effetti collaterali. Un'evoluzione positiva, a patto che i farmaci non smettano di funzionare. «Le cause della resistenza ai farmaci sono ancora incomprese», precisa Silvia Bertagnolio, un'infettivologa dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, tra le firmatarie del dossier. Un'ipotesi è che l'ostacolo si presenti nel momento in cui i pazienti interrompono il trattamento.
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CURE PER TUTTA LA VITA
A sostenerla sono i dati che confrontano la risposta ai farmaci rilevata tra i nuovi infetti (8 per cento) e tra coloro che avevano ripreso le cure dopo una pausa (21 per cento). Un'evenienza che, per esempio, riguarda le donne che hanno affrontato una gravidanza e la successiva fase di allattamento al seno. In questi frangenti, l'indicazione terapeutica viene quasi sempre rispettata alla lettera. Ma dopo, non di rado, le donne interrompono le cure, sebbene l'Organizzazione Mondiale della Sanità raccomandi di rispettare il protocollo per tutta la vita. La mancata osservanza della terapia può essere anche la conseguenza della carenza di farmaci (soprattutto in alcune aree del Pianeta) e dello stigma che, ancora oggi, continua a gravare sulle spalle delle persone che convivono con l'Hiv. Per far fronte al problema della resistenza, gli esperti suggeriscono una lenta ma progressiva transizione verso dolutegravir, un nuovo farmaco che può essere considerato «più efficace e con meno effetti collaterali» rispetto agli altri.
Fonti
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).