Una speranza in più per le persone colpite da un tumore neuroendocrino arriva dal trapianto di fegato. Sopravvivenza quadruplicata rispetto a chi segue le terapie tradizionali
Rari lo erano, dal momento che hanno appena superato la soglia (5 casi ogni centomila abitanti) al di sopra del quale non possono più essere definiti come tali. I tumori neuroendocrini sono sconosciuti ai più, eppure in lieve ma costante aumento. Oggi uno studio italiano mostra dati di sopravvivenza quadruplicati per i pazienti colpiti da metastasi epatiche sottoposti a un trapianto di fegato.
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TUMORI NEUROENDOCRINI: COSA SONO
I tumori neuroendocrini sono un gruppo di neoplasie molto diverse fra loro per sintomi e per localizzazione, che possono colpire vari organi del corpo e in comune hanno il fatto di originare dalle cellule del sistema neuroendocrino. Una delle sedi più colpite è il fegato. Finora i trattamenti di elezione sono stati rappresentati dalla terapia farmacologica, dalla radio e dalla chemioembolizzazione: procedure che attraverso il ricorso a microsfere radioattive o all’interruzione del nutrimento dei noduli puntano ad arrestare l'apporto di sangue alle cellule tumorali nel fegato. Ma c’è un’alternativa più efficace: il trapianto di fegato.
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SOPRAVVIVENZA QUADRUPLICATA DOPO DIECI ANNI
La notizia giunge da uno studio pubblicato sull’American Journal of Transplantation e portato avanti all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano sotto l’egida di Vincenzo Mazzaferro, tra i massimi esperti di chirurgia trapiantologica del fegato in ambito oncologico. I risultati della ricerca sono i primi a dimostrare il vantaggio del trapianto d’organo rispetto alle altre terapie in uso, per i pazienti colpiti da un tumore neuroendocrino con metastasi epatiche. Sugli 88 pazienti arruolati, l’efficacia del trapianto è stata valutata ponendo a confronto la sostituzione dell’organo (in 42 casi) con gli altri trattamenti utilizzati in questi casi. Il guadagno in termini di sopravvivenza, poco visibile nel primo quinquennio successivo alla diagnosi, è risultato in realtà crescere sensibilmente nella valutazione effettuata dopo due lustri. «È risultato vivo l’88 per cento dei pazienti trapiantati, a differenza del 22 per cento del gruppo di controllo», afferma Mazzaferro, che dirige l’unità di chirurgia dell’apparato digerente e dei trapianti di fegato. A sostegno del risultato c’è la lunga durata del follow-up, che ne consolida la portata.
IN QUALI CASI PUO' AVVENIRE IL PRELIEVO DEGLI ORGANI?
CHI PUÒ CANDIDARSI AL TRAPIANTO DI FEGATO?
Il trapianto di fegato non è però per tutti. I parametri da rispettare sono piuttosto rigidi. «Il tumore neuroendocrino deve essere di origine gastroenterica, a basso o medio grado di aggressività». Ciò equivale a dire che il fegato deve essere l’unico organo colpito da metastasi e soprattutto devono risultare puliti i linfonodi. Infine, tra i criteri, c’è anche l’età. «Oltre i sessant’anni non si potrebbe effettuare, tranne casi eccezionali da valutare al momento», prosegue lo specialista. Che la soluzione del trapianto sia efficace lo rivelano anche le parole di Fabrizia, oggi 53 anni. Nel 1998 scoprì di avere un tumore neuroendocrino con metastasi epatiche. Il trattamento terapeutico fu lungo: intervento per l’asportazione del tumore primitivo (al mesentere), chemio e radioembolizzazione. Infine l’iscrizione in lista d’attesa per un trapianto di fegato, fino al 2003: anno dell’intervento. «All’inizio è stata dura pensare che, pur non avendo sintomi, mi era stato indicato di candidarmi al trapianto. Ma oggi che il mio fisico ha reagito bene e che mi sottopongo a due controlli generali durante l’anno non posso che essere soddisfatta».
LE ALTERNATIVE IN CASO DI METASTASI EPATICHE
Pur dovendo fare i conti con l’esiguità degli organi - a fronte dei 1.235 trapianti effettuati, alla fine del 2016 erano 1.041 le persone ancora in attesa di un fegato nuovo - l’opzione radicale si conferma dunque più efficace rispetto alla chemio e alla radioembolizzazione. Le due modalità di trattamento sono meno invasive rispetto alla chirurgia tradizionale, più rapide, meno dolorose, ripetibili in caso di recidive. Hanno come scopo bloccare la progressione della malattia, mentre il trapianto è una soluzione radicale. A chemio e radioembolizzazione , quando la malattia colpisce il fegato, può essere affiancata la termoablazione. Portando il tessuto tumorale fino a novanta gradi, l’obiettivo è far sciogliere il tumore. Come spiega Sandro Barni, direttore del dipartimento oncologico dell’ASST Bergamo Ovest-Treviglio, «la termoablazione, a parte casi specifici come l’epatocarcinoma primario, non è sostitutiva, ma complementare alla chirurgia tradizionale e ai trattamenti medici. L’opzione trova applicazione anche nelle metastasi epatiche: dopo aver valutato la loro natura, il numero e l’aspetto biologico. Quando la chirurgia non è praticabile, perché la lesione è difficilmente resecabile, o il paziente non può né essere operato né sottoposto alla terapia farmacologica, la termoablazione rappresenta l’unica soluzione applicabile».
La Fondazione Umberto Veronesi aderisce a:
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).