Pembrolizumab, in associazione alla chemioterapia standard, aumenta la sopravvivenza globale. I benefici validi almeno nel 40% delle donne con triplo negativo. Ma la ricerca non si ferma qui
L’immunoterapia combinata alla chemioterapia si conferma la strategia migliore per combattere in prima linea una buona fetta dei tumori al seno triplo negativo. Gli ultimi dati pubblicati sul New England Journal of Medicine lasciano poco spazio alle interpretazioni: l’utilizzo di pembrolizumab, in associazione alla chemioterapia standard, è in grado di migliorare in maniera significativa la sopravvivenza globale alla malattia. Un dato che fa ben sperare nella cronicizzazione del tumore al seno metastatico triplo negativo.
IDENTIKIT DEL TRIPLO NEGATIVO
Tra i tumori al seno quello più difficile da trattare è il triplo negativo. Particolarmente diffuso al di sotto dei 50 anni e in chi presenta mutazioni nel gene BRCA1, questa forma tumorale rappresenta circa il 15-20% di tutte le neoplasie della mammella. Ma mentre le altre forme possono essere curate con buoni risultati, il triplo negativo è particolarmente aggressivo e presenta una sopravvivenza media dalla diagnosi nettamente inferiore rispetto alle altre forme. Il nome triplo negativo deriva dal fatto che in questo specifico tipo di tumore al seno, a differenza di altri tumori mammari, le cellule non possiedono sulla loro superficie tre principali bersagli terapeutici: il recettore degli estrogeni, quello dei progestinici e l’iperespressione di HER2. L’assenza di questi target rende dunque questa neoplasia particolarmente difficile da trattare. Per questa ragione la chemioterapia che rimane lo standard di trattamento da decenni.
COMBINARE CHEMIO E IMMUNOTERAPIA
Una delle possibili strategie per affrontare la malattia è rappresentata dall'immunoterapia. Sperimentata con successo in diversi tipi di tumore, sono sempre più numerosi gli studi clinici sull'utilizzo di questo approccio nel tumore al seno triplo negativo metastatico. Nella scorsa edizione del congresso ESMO svoltasi in settembre, sono stati presentati i dati di KEYNOTE-355 i cui risultati aggiornati sono appena stati pubblicati sulle pagine del New England Journal of Medicine. «Lo studio in questione -spiega Paolo Tarantino, oncologo presso il Dana–Farber/Harvard Cancer Center di Boston- aveva l’obbiettivo di valutare l’utilizzo dell’immunoterapico pembrolizumab in aggiunta alla terapia standard rappresentata dalla chemioterapia con taxani o platino/gemcitabina. I risultati ottenuti nel corso del tempo hanno indotto l’FDA -già nel novembre del 2020- ad approvarne l’utilizzo in prima linea. La combinazione infatti si è dimostrata estremamente efficace, rispetto alla sola chemioterapia, nel prolungare la sopravvivenza globale alla malattia».
FUNZIONA NEL 40% DEI CASI TRIPLO-NEGATIVO
C’è un però: non tutti i tumori triplo-negativo sono uguali. Quelli che rispondono efficacemente all’immunoterapia devono esprimere una particolare proteina (PD-L1) che predice l’efficacia dicpembrolizumab. Per quanto riguarda lo studio da poco pubblicato i dati positivi si sono ottenuti in quelle pazienti con un CPS (Combined Positive Score, un indicatore per quantificare la risposta del farmaco) superiore a 10. «Le pazienti con queste caratteristiche -prosegue Tarantino- rappresentano circa il 40% di tutte le diagnosi di tumore al seno triplo negativo. Ecco perché si tratta di un risultato in grado già di cambiare le prospettive di cura di molte donne. In generale, con l'aggiunta dell'immunoterapia, la speranza è quella di ottenere risposte durevoli nel lungo periodo, che difficilmente si possono ottenere con la sola chemioterapia».
CHEMIO ADDIO?
Nell’attesa che anche in Italia sia disponibile questa combinazione (in Europa e nel nostro Paese si usa ancora spesso l'atezolizumab nello stesso setting che ha mostrato dati simili a pembrolizumab ma con risultati statisticamente negativi), la ricerca è tutt’altro che ferma. Complice il recente successo degli anticorpi coniugati (straordinari i risultati presentati all’ultimo congresso ASCO lo scorso giugno), la ricerca si sta indirizzando nel tentare di cambiare le combinazioni di farmaci utilizzati. «Lo studio di fase 1 BEGONIA ha mostrato che gli anticorpi coniugati funzionano molto bene in questo stesso setting in prima linea ove combinati con l’immunoterapia, incluso in pazienti con tumori non esprimenti il PD-L1. Ecco perché non è impensabile che in futuro sostituiscano la chemioterapia da abbinare all’immunoterapia» conclude Tarantino.
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Daniele Banfi
Giornalista professionista del Magazine di Fondazione Umberto Veronesi dal 2011. Laureato in Biologia presso l'Università Bicocca di Milano - con specializzazione in Genetica conseguita presso l'Università Diderot di Parigi - ha un master in Comunicazione della Scienza ottenuto presso l'Università La Sapienza di Roma. In questi anni ha seguito i principali congressi mondiali di medicina (ASCO, ESMO, EASL, AASLD, CROI, ESC, ADA, EASD, EHA). Tra le tante tematiche approfondite ha raccontato l’avvento dell’immunoterapia quale nuova modalità per la cura del cancro, la nascita dei nuovi antivirali contro il virus dell’epatite C, la rivoluzione dei trattamenti per l’ictus tramite la chirurgia endovascolare e la nascita delle nuove terapie a lunga durata d’azione per HIV. Dal 2020 ha inoltre contribuito al racconto della pandemia Covid-19 approfondendo in particolare l'iter che ha portato allo sviluppo dei vaccini a mRNA. Collabora con diverse testate nazionali.