Le cure sono importanti ma un paziente vuole anche poter parlare del proprio male e rompere l’isolamento in cui vive. Come insegna un bel libro, “Parliamone insieme”
Il cancro. Ancora innominabile per tanti: parenti, amici, colleghi di lavoro del malato. E allora, come dice il titolo di un libretto coraggioso e concreto, Parliamone insieme. I due autori, l’oncologo Alberto Scanni e Aldo Sardoni (da molti anni malato egli stesso), fondatore dell’associazione di malati oncologici Bianco Airone onlus, l’hanno presentato nella sede della Regione Lombardia con il patronato di Walter Bergamaschi, direttore generale dell’assessorato alla sanità. E hanno avanzato una richiesta forte: i malati di cancro hanno bisogno di cure, ma soprattutto di tempo. Il medico deve potergli dare mezz’ora, un’ora, quello che serve. Non i quattro minuti e mezzo per paziente che sono stati sciaguratamente calcolati da certi manager. Per spiegare le terapie, per ascoltare i dubbi e le angosce, tempo per insegnare ai familiari («Tutta la famiglia si ammala col malato») come possono far stare meglio il loro caro. Scanni e Sardoni hanno illustrato un percorso di vita, non di morte. Forse il paragone con l’infezione da Hiv è improprio, ma anche il cancro sta diventando in molti casi una malattia cronica, che può permettere dopo la diagnosi anche 25 anni di vita. Ci sono stati grandi progressi nelle cure, ed è doveroso cambiare il punto di vista con cui la società guarda a questa malattia.
E allora? Affinché il malato di cancro rientri a pieno titolo nel mondo della normalità, smettendo di apparire un alieno evitato e compatito, bisogna evitare gli sbagli, a partire dai medici.
I MEDICI - Dice Alberto Scanni: «Il paziente oncologico ha sempre ragione, anche quando ha torto. L’ho sempre ricordato ai miei colleghi giovani». E Aldo Sardoni spiega il concetto: «Il paziente oncologico è un paziente speciale, diverso dagli altri, e la comunicazione non può essere intesa come quella tra due persone sane. La relazione di cura tra oncologo e paziente è uno strumento terapeutico straordinario, e ci ha convinti che confrontare i due punti di vista è molto utile.» E il medico, nel solco della tradizione umanistica europea, non deve mai togliere la speranza. Scanni confessa che non ripeterebbe mai l’errore fatto tanti anni fa: «Una psicologa, documentando il tutto con lavori scientifici, riuscì a convincere il nostro gruppo che ai malati bisognava dire la verità. La dissi a una bellissima ragazza, colpita da un osteosarcoma del bacino. Parlai pacatamente, con dolcezza, misurando le parole, ma con chiarezza. Mi abbracciò con le lacrime agli occhi, poi mi dissero che in reparto aveva pianto molto. Dopo alcuni giorni morì. L’avevo uccisa prima del tempo! Invece avrei dovuto dirle che, anche se la situazione era pesante, si poteva lottare per un futuro migliore.» Stesso discorso per il ricovero in hospice : «Non usiamola più, questa definizione. Ormai viene associata alla morte. Bisogna presentare le cure palliative come efficaci.»
I FAMILIARI - Bianco Airone onlus organizza corsi per i familiari. Dice Sardoni: «Il malato e il familiare si recano sofferenza l’un l’altro, “per amore”. I familiari vedono solo una piccola parte dei dolori palesi. I nostri sensi di colpa sono le cose non dette, i loro sensi di colpa sono le cose non fatte che ci riguardano. Noi, sdraiati, vediamo il soffitto. Loro, sani, vedono il pavimento. Viviamo in due mondi diversi, dobbiamo imparare a parlarci.»
I MEDIA - Duro l’atto di accusa di Sardoni e Scanni. Hanno chiesto: «Ma il giornalista, quando scrive di cancro o di altre malattie, pensa mai che quella notizia la leggeranno anche i malati? Spesso i media sparano stupidaggini, vere e proprie balle, oppure mezze verità, oppure verità, ma come informazioni mai o raramente complete.»
GLI OSPEDALI - Ci sono troppi day hospital in cui le ore lunghe e pesanti della chemioterapia passano in locali squallidi e scomodi. E ultimamente spesso il malato di cancro viene ricoverato non in un reparto di oncologia o di ematologia, dov’è protetto dalla competenza di medici e infermieri che sanno anche sorridere e rassicurarlo, ma in un letto di medicina generale, che diventa un’isola di solitudine su cui non si posano gli sguardi. Dice Scanni: «E’ una condanna nella condanna, ed è un atto ignobile! Esecrabile! Vile!»
Antonella Cremonese