Colpita da un tumore al pancreas, Chiara racconta il suo impegno. Per chi, come lei, «non chiede altro che più tempo per vivere»
«Di tumore al pancreas bisogna parlare. Bisogna parlare di più di cancro e di chi sta lottando, perchè siamo in tantissimi ad esserne colpiti, anche giovani e ragazzi».
Questa è la storia di Chiara.
DAI SINTOMI ALLA DIAGNOSI
Chiara Betelli ha scoperto di essere malata nel 2017. «Da un po’ avevo un forte prurito a mani e piedi. Non passava in alcun modo e ho iniziato a preoccuparmi. Ho fatto degli esami del sangue ed è risultato che avevo le transaminasi alte: un segno di tossicità epatica, mi son detta. Sono biologa, certe cose le capisco. Alcuni amici e colleghi medici, sul lavoro, mi tranquillizzavano: ‘Dai Chiara, avrai mangiato qualcosa che ti ha creato problemi. Prendi del cortisone e vedrai che ti passa’». In effetti così il prurito scompare. Ma non i timori. «Non ero tranquilla, la spiegazione dell’intossicazione non mi convinceva e sentivo che qualcosa non andava. Così una sera di novembre mi sono presentata al Pronto Soccorso, da sola. E sono rimasta una settimana».
Per cercare di capire cosa c'è dietro ai sintomi e ai valori anomali di Chiara, i medici conducono indagini approfondite. «Tc e Pet, due biopsie per un’infiammazione alla testa del pancreas, ma anche analizzando i campioni di tessuto pancreatico non c’era traccia di cellule tumorali. C’erano però delle “cellule atipiche”». C’è qualcosa al pancreas, ed è un problema serio. Poco più di trent’anni, un lavoro, amici, un compagno e un figlio piccolo. Cosa passa per la testa in quei momenti, in cui la vita di butta a terra a tradimento? «Mille domande: perché io? Cosa accadrà? Quanto potrò vivere? Chi accompagnerà il mio bambino il primo giorno di scuola?».
SCELTE DIFFICILI
I medici, però, prendono Chiara per mano e le spiegano che ci sono decisioni da prendere subito. «Avevo due opzioni. La prima era operare, una duodenocefalopancreasectomia, un nome lunghissimo per indicare la rimozione di tutto il duodeno, di una parte dello stomaco, della testa del pancreas e poi riassemblare il tutto. Un intervento impegnativo e rischioso, praticato di rado alla mia età. La seconda opzione era una terapia a base di cortisone per un mese, per vedere se il problema fosse di tipo infiammatorio, ma in caso contrario sarebbe stato impossibile operare prima di altri due mesi dalla fine della cura». Chiara si ritrova a prendere una delle decisioni più difficili della sua vita, ma lo fa in fretta, e dice «No, operiamoci». («Sono una persona molto pratica», mi spiega). Il complesso intervento chirurgico riesce senza complicazioni, Chiara continua ad avere un pancreas funzionante e si sottopone a sei mesi di chemioterapia adiuvante per consolidare gli effetti dell’operazione. «Tolleravo bene il farmaco, non avevo neppure perso tutti i capelli, ero abbastanza contenta», racconta.
LE METASTASI
Tutto procede bene per un anno, durante il quale la vita di Chiara riprende, cadenzata dai controlli periodici. Fino all’esito della Tc del febbraio 2019 in cui compaiono delle metastasi al polmone. «Erano piccolissime – spiega Chiara – quindi abbiamo deciso di limitarci a tenerle sotto controllo, ma dopo sei mesi mostravano un trend di crescita». Non si può più aspettare e Chiara riprende la chemioterapia, questa volta «molto più pesante, non avevo i capelli, stavo male». Una lunga pausa, cerca le parole giuste. «È che cambia molto la visione di ciò che si può tollerare. Prima al pensiero di avere un tubo attaccato al braccio, di vomitare, avrei detto: ‘impossibile, non ce la farei’. Poi invece capita, uno si adatta, e fa quello che deve». La cura fa il suo effetto, le metastasi si stabilizzano.
VIVERE CON LA MALATTIA
E siamo a oggi. «Adesso sono in terapia, ogni due settimane. Faccio una vita normale, resto a casa a riposo solo il giorno della chemioterapia. Ci sono la famiglia, il lavoro, i miei interessi; inoltre mi vedo normale fisicamente, e aiuta moltissimo non avvertire gli sguardi malinconici degli altri». Chi o cosa aiuta a restare in piedi, e quanto contano le persone che ci stanno intorno? «Sono molto fortunata, sono stata seguita a Modena da un team di medici eccezionale, ancora oggi ci sentiamo al cellulare e non mi fanno mancare il loro supporto, se ho dubbi o paure loro ci sono. Ho un compagno, i miei genitori, tanti amici. Ho un bambino». Ha il nome di un eroe, guerriero e viaggiatore: Enea. «Aveva due anni quando mi sono ammalata e lui, anche ora, è lo stimolo più grande, perché sono io che devo essere forte. Gli ho spiegato tutto, lui sa che la mamma deve mettere la medicina nel tubicino, sa il perché a volte sono stanca».
IL COVID-19, IL VACCINO
Questi mesi difficili di emergenza Covid-19 non hanno certo reso la vita più semplice. «Purtroppo il momento è duro. Lavoro da casa, ma non posso mandare mio figlio a scuola perché io sono a rischio. Per fortuna, lavorando in ambito sanitario, ho potuto vaccinarmi contro il virus e non vedo l’ora di ricevere la seconda dose. Mi è pesato moltissimo non mandarlo a scuola: gli amici mancano a me, figurarsi a lui…. Ma anche la pandemia l’ho presa di petto, come sono abituata a fare: quello che c’è da fare si fa».
LA DECISIONE DI METTERSI IN GIOCO
Lo scorso autunno, nel pieno della seconda ondata pandemica e in vista del suo trentasettesimo compleanno, Chiara decide di avviare una raccolta fondi per la ricerca sul tumore del pancreas sulla piattaforma Insieme e, in poco tempo, ottiene risultati straordinari. Com’è andata? «Seguivo Fondazione Umberto Veronesi già da tempo, anche per interesse professionale. Così ho deciso di aprire una campagna di raccolta fondi sul vostro sito, è stato semplice: ho inserito un testo con la mia storia, ne ho parlato con amici e conoscenti, un giornale locale ne ha scritto, qualche post su Instagram e…». E si avvia una catena di solidarietà che raggiunge – e tocca – tanta, tanta gente. «Ho ricevuto contributi anche da persone sconosciute, che però condividono qualcosa della mia storia e della mia speranza: ‘Non ti conosco, Chiara, ma invece di comprare un panettone li do a te’. Mi ha fatto piacere, non era scontato e non me lo aspettavo. Ho fatto ricerca per tanti anni, spero che questi fondi servano alla ricerca sui tumori del pancreas, una malattia subdola, che colpisce anche i giovani (anche se pochi lo sanno e pochissimi ne parlano). Io ho avuto modo di conoscere tanti pazienti al di sotto dei 50 anni, che come me non chiedono altro che più tempo per vivere».
LA RICERCA, LA VITA CHE VA AVANTI
Il tempo dedicato, le parole spese, l’impegno per raccogliere denaro da destinare al finanziamento alla ricerca sul pancreas. Con una motivazione ferrea, che Chiara non esita a definire «anche egoistica». «Spero che vengano compiuto passi avanti un po’ alla svelta, che si trovino soluzioni per tenere sotto controllo le metastasi polmonari. Io so di essere stata fortunata, in qualche modo, perché rientro nella piccola percentuale di persone con un cancro al pancreas operabile. La mia speranza più grande è quella di guarire, ma se la vita va avanti, se la ricerca nel frattempo ci dà una mano e questa malattia si può tenere sotto controllo, allora va bene così. So che la medicina progredisce e che si sviluppano terapie sempre più specifiche. Ad esempio, quest’anno ho potuto accedere a un test genetico per valutare la dose di farmaco che il mio corpo può tollerare, ed è un’opportunità che prima non esisteva e che può fare la differenza nella vita di un paziente. Io ci spero molto».
ABBATTERE I TABÙ
C’è chi le ha scritto definendola coraggiosa. «Non è coraggio. L’ho fatto per me. Come andrà, andrà, ma io faccio quello che posso, mi metto in gioco: se non combatto io, chi lo fa per me?». Chiara racconta che la ferisce come, ancora oggi, la malattia tumorale si porti addosso un carico di tabù e di stigma. «Bisogna parlarne con chiarezza, per sensibilizzare la gente sul fatto che il cancro esiste, e colpisce persone anche giovani. Siamo tantissimi, molti ragazzi. E io sono felice di essere uscita allo scoperto con la mia storia. Mi sento più libera, ora lo posso dire a voce alta: ‘Sono Chiara, ho 37 anni, ho un tumore, sto facendo terapie, sto tenendo sotto controllo la mia malattia e vivo la mia vita’».
Donatella Barus
Giornalista professionista, dirige dal 2014 il Magazine della Fondazione Umberto Veronesi. E’ laureata in Scienze della Comunicazione, ha un Master in comunicazione. Dal 2003 al 2010 ha lavorato alla realizzazione e redazione di Sportello cancro (Corriere della Sera e Fondazione Veronesi). Ha scritto insieme a Roberto Boffi il manuale “Spegnila!” (BUR Rizzoli), dedicato a chi vuole smettere di fumare.