Uno studio demolisce il sospetto che il farmaco anti obesità possa indurre depressione o addirittura gesti suicidari
È un farmaco che è letteralmente “esploso” l’anno scorso - e il trend continua - per la sua efficacia nella perdita di peso. È la semaglutide, prodotta dalla danese Novo Nordisk e approvata per tutt’altra indicazione: combattere il diabete. Ma come effetto collaterale non previsto è emersa una notevole capacità di far diminuire i chili di dosso per cui della “prescrizione” si sono impossessati, in folla, uomini e donne con gli zuccheri perfettamente a posto nel sangue, ma, appunto, gravati da adipe. Tanto da rendere in certi periodi irreperibili nelle farmacie sia il prodotto iniettabile che le pastiglie per quanti ne avevano realmente bisogno causa glicemia alta.
QUATTRO SU 10 SOLTANTO PER DIMAGRIRE
Su 5 milioni di americani che hanno preso questo farmaco nel 2023, 4 su 10 l’hanno preso solo per arrivare al peso forma senza fatica. Dopo questi exploit la Novo Nordisk ha pensato bene di “separare” i componenti che si sono rivelati dimagranti dal resto del farmaco anti-diabete e presentare un prodotto dedicato espressamente all’obesità, col beneplacito sia della Food and Drug Administration (Fda) americana sia della European Medicine Agency (Ema) per l’Europa. Ma non ci saranno altri effetti collaterali dannosi in questa sostanza “miracolosa” che ha riempito di miliardi su miliardi la casa produttrice? È circolato un sospetto: che possa indurre depressione, fino al punto di spingere al suicidio o a provarci.
UNO STUDIO SU 4.000 PERSONE RASSICURA
A dissipare il dubbio è arrivata ora su Jama Internal Medicine una ricerca della Perelman School of Medicine dell’Università della Pennsylvania, a Filadelfia (Usa), condotta dallo psichiatra Thomas Wadden, specialista nei problemi di obesità. L’analisi è stata compiuta su 3.377 persone su 4 livelli per un anno e quattro mesi, escludendo a priori dall’indagine individui che già avevano o avevano avuto una diagnosi di depressione o tentativi di suicidio alle spalle. Lo studio è stato fatto col prodotto specifico per l’obesità con 2,4 mg di semaglutide messo a confronto con la somministrazione di placebo. Ha dichiarato il dottor Wadden: «Le prove fatte con la semaglutide 2,4 mg mostrano che vi è una diminuzione del peso e un miglioramento di varie complicazioni legate all’obesità. C’è poi la sicurezza che persone senza problemi mentali non si troveranno con un aumentato rischio di depressione, pensieri o comportamenti suicidari. Dubbio escluso».
LE CONFERME DI FDA ED EMA
In un’indagine specifica, lo Step 4, è emerso un 1 per cento di partecipanti che avevano avuto pensieri o gesti legati al suicidio nel periodo dell’indagine, ma si è anche visto che la stessa percentuale ricorreva in chi aveva assunto il farmaco e chi invece il placebo. Cifre, del resto, corrispondenti ai valori nella popolazione generale. In un editoriale di accompagnamento alla ricerca di Thomas Wadden, i professori Timothy S. Anderson dell’università di Pittsburgh e Deborah Grady dell’Università della California a San Francisco scrivono: «Questi studi sono rassicuranti e supportano le conclusioni preliminari della Fda e dell’Ema secondo cui non esistono prove sufficienti per collegare gli agonisti del recettore Glp-1 all’ideazione suicidaria. Nessuno degli studi tuttavia risponde chiaramente alla domanda se gli agonisti del recettore Glp-1 peggiorino i sintomi nei pazienti con problemi di salute mentale preesistenti». Su questo tipo di pazienti andrebbe condotta una ricerca specifica.
IL SOSPETTO INDOTTO DAI PRIMI FARMACI
La professoressa Simona Bertoli, ordinaria di Scienze dietetiche applicate all’Università di Milano e responsabile dei Centri Obesità lombardi di Auxologico, così commenta la ricerca di Wadden: «Il tema del possibile influsso depressogeno del farmaco era doveroso in quanto i primi farmaci dimagranti comparsi anni fa avevano questo effetto collaterale negativo. Ci fu qualche caso di suicidio. Uno di questi preparati dovette essere ritirato. Ma c’è un altro sospetto di base: queste nuove sostanze che fanno perdere chili si basano sull’aumentato senso di sazietà. Insomma, tolgono il senso di fame e la persona mangia di meno, perciò cala di peso».
MANGIARE È ANCHE “MANGIARE” LA VITA
Fin qui sul fisico. La professoressa Bertoli cambia il tiro: «Ma attenzione: il mangiare è anche un piacere. Al cibo a volte si ricorre con fini antidepressivi. Ora, se tolgo il cibo, potrebbe sparire anche il piacere che l’accompagna. Perché c’è una fame biologica, che ci accomuna a tutti gli animali, ma c’è anche una fame emotiva. Del cibo come felicità. Potrebbe essere rischioso toccare questo duo». Continua la docente: «Il Glp-1che è la molecola del semaglutide è anche presente nel nostro organismo, l’ormone incretina, Glp-1 per l’appunto, prodotto dal nostro intestino, un ormone che fa bene per lo zucchero nel sangue, dunque per il diabete. Lo studio che abbiamo esaminato, pubblicato su una rivista autorevole, rassicura sul rischio che insieme alla fame se ne vada anche la gioia di vivere».
Serena Zoli
Giornalista professionista, per 30 anni al Corriere della Sera, autrice del libro “E liberaci dal male oscuro - Che cos’è la depressione e come se ne esce”.