In Usa due terzi dei malati di questa demenza sono al femminile. Anche la gravità e l’accelerazione sono più intense in questo sesso. Ma le cause di questo fenomeno sono ancora da ricercare
Già in copertina del suo Rapporto 2014 la Alzheimer’s Association americana mette un uomo e due donne. Ed è un messaggio. Dentro dice subito che due terzi di quanti soffrono negli Stati Uniti di questa demenza sono donne e che a occuparsi del totale dei malati (5 milioni) sono due volte e mezzo più le donne che gli uomini. «Dunque una malattia doppiamente al femminile», commenta il dottor Carlo Gabelli, responsabile del Centro per lo studio e la cura dell’invecchiamento cerebrale (Cric) presso l’Ospedale-Università di Padova. «Questa realtà sta emergendo appena ora e deve essere ancora affrontato sotto il profilo della Medicina di genere».
CIFRE ECLATANTI, NESSUNA PROVA
E’ quanto dice anche il Report americano, sottolineando e ripetendo, con prudenza scientifica, che «non c’è alcuna prova che le donne siano più predisposte degli uomini a sviluppare la demenza in qualunque età si consideri». Tuttavia le cifre che poi dispiega in base a proprie ricerche e ad altre dedotte dal famoso Framingham Study indicano differenze tra i sessi eclatanti. Che non danno l’impressione di spiegarsi soltanto con gli anni che le donne vivono in più. Per non parlare, poi, del fatto che lo stesso Report ha ritenuto di allegare uno “Speciale: donne e la malattia di Alzheimer”, studio di approfondimento sul tema (e di tante domande aperte).
A 65 anni per lei ci sono il 17 per cento di probabilità (una su 6) di sviluppare l’Alzheimer nel tempo di vita che resta mentre per lui solamente il 9 (uno su 11). I ricercatori del Report suggeriscono come principale, se non unica, causa della disparità il fatto che le donne vivono più a lungo degli uomini e che questa malattia della mente cresce in modo esponenziale rispetto al crescere dell’età.
A 85 ANNI RISCHIA UNA SU 5
Lascia perplessi allora leggere che già a un’età avanzata come 85 anni lei ha ancora il 20 per cento di rischio rispetto a un 12 per cento dei coetanei maschi.
Maggiore lunghezza media dell’esistenza a parte, quali possono essere le cause? «Intanto sta emergendo che il cervello è diverso tra maschi e femmine già prima dello sviluppo sessuale. Anche negli animali è così», dichiara Gabelli. «Le manifestazioni della malattia e la sua velocità nello svilupparsi sono diverse, e più pesanti, per il sesso femminile, dunque più grave e precoce è l’invalidità tra le pazienti».
Ovvio pensare all’assetto ormonale, differente nei due generi, e al fatto che la donna a un certo punto incontra la menopausa. «Sì, subisce un forte abbassamento degli estrogeni che sono legati alle capacità cognitive. Allora che fare: dare la terapia ormonale sostitutiva come prevenzione dell’Alzheimer? Si è visto che in caso di menopausa precoce, a 40 anni, l’impiego del cerotto risulta protettivo, mentre se la perdita del ciclo arriva a 50-55 anni l’utilità della terapia sostitutiva contro le demenze è dubbia».
IL CARICO GENETICO
Infine, sia il dottor Gabelli sia il Report dell’Alzheimer Association rilevano che tra i fattori di rischio genetico il più marcato è una variante del gene Apoe la quale risulta avere un peso maggiore, ancora una volta, sulle donne. «Oggi c’è davvero bisogno di un grande approfondimento della ricerca per definire le differenze biologiche nel processo della malattia tra uomini e donne», conclude il documento americano, contraddicendo in parte con i suoi numeri e le sue ipotesi l’affermazione iniziale sul fatto che l’Alzheimer e le altre demenze non incidano maggiormente sulle donne.
RADICI NASCOSTE LUNGHE 15 ANNI
Il buio su queste malattie degenerative così pesanti, e in forte aumento ovunque con l’aumentare delle persone anziane e vecchie, è davvero profondo. «Quando noi diagnostichiamo un Alzheimer la malattia è in atto da almeno 15 anni», dice il medico padovano. «Questo spiega perché i vari trattamenti sono deludenti».
E la speranza di arrivare a diagnosi precoci? «Si stanno affinando vari mezzi. Ora si esaminano dei traccianti che si legano alle placche di betamiloide nel cervello e permettono di quantificarle. Alcuni sono già stati approvati dalla Food and Drug Administration americana, tuttavia… Men che mai poi un mezzo che possa far pensare ad azioni di screening».
Se il Cnr di Pisa tiene corsi sperimentali di “Train the brain”, allena la mente, anche al Cric di Padova si esercitano persone anziane con test cognitivi per mantenere il cervello ben “oleato”. Una prevenzione (che in certa misura si può anche fare da sé restando attivi, interessati alla lettura, al cinema, alle compagnie di amici…) che sembra dare frutti. «E qui si vede», conclude Carlo Gabelli, «che le più sfavorite, le donne, sono quelle che rispondono di più e meglio».
Finalmente un punto di vantaggio.
Serena Zoli
Giornalista professionista, per 30 anni al Corriere della Sera, autrice del libro “E liberaci dal male oscuro - Che cos’è la depressione e come se ne esce”.