Dalla revisione di centinaia di studi un nuovo modello per l'Alzheimer: cause (e cure) più complesse del previsto. Cruciali prevenzione e diagnosi precoce
Ora c’è chi parla di tre Alzheimer. Lasciando la scelta se considerarle tre distinte malattie oppure tre varianti di una sola. Il nuovo studio targato Ginevra (Svizzera) contraddice il modello vigente di una malattia caratterizzata da una sequenza ineluttabile, a cascata, che va dall’accumulo di proteine tossiche nel cervello fino alla demenza provocata da un processo neurodegenerativo.
DAL PRIMO FARMACO LA SPINTA A RIVEDERE GLI STUDI
Sì, dicono i ricercatori svizzeri, questa sequenza deterministica si riscontra a volte, è vera, ma non per tutti i pazienti. I risultati insoddisfacenti del farmaco presentato di recente come il primo che cura l’Alzheimer (Aducanumab, per il quale di recente l'Agenzia europea del farmaco ha dato parere negativo all'immissione in commercio) hanno sottolineato che occorre riconsiderare la malattia, presente in Europa in 10 milioni di persone. Si sono assunti questo compito un consorzio di medici e di scienziati, guidato dall’Università di Ginevra (Unige) e dagli ospedali universitari della città (Hug), esteso anche all’Istituto nazionale della Salute e della Ricerca in Francia (Inserm), ri-analizzando (review) i dati di quasi 200 studi pubblicati.
UNA BASE GENETICA DIVERSA O ASSENTE
«Alcuni erano studi nostri – precisa il professor Giovanni B. Frisoni, direttore del Centro della memoria e professore di Neuroscienze cliniche all’Università di Ginevra. – Abbiamo condotto un’analisi più critica e più globale dalla quale sono emersi tre tipi di Alzheimer. Cambia in particolare il peso della componente genetica». Primo tipo: in casi molto rari si tratta di ereditarietà. Un secondo tipo è caratterizzato da un gene (Apoe) che rende più suscettibili alla malattia, ma non è “causativo”, non la genera. La terza tipologia si deve a tanti fattori ambientali o comunque legati alla salute della persona. «Predisponenti sono la depressione, l’isolamento sociale così come l’ipertensione e il diabete. Più altri fattori ambientali sconosciuti», elenca il professor Frisoni. «In quest’ultimo tipo potrebbe essere importante il microbiota, l’insieme dei batteri contenuti nell’intestino».
DUBBI SULLA SEQUENZA IN QUATTRO GRADINI
In questa ottica, esposta sulla rivista Nature Reviews Neuroscience, l’Alzheimer cambia profondamente volto e fa presagire che non si potrà arrivare a un’unica terapia, ma a diversi farmaci efficaci per ognuno dei tre gruppi di pazienti. L’Alzheimer è di solito descritto come una sequenza in quattro gradini: placche di proteina beta-amiloide si depositano nella corteccia cerebrale, poi aumentano grovigli neurofibrillari di proteina tau-iperfosforilata che si aggregano nei neuroni, le cellule nervose. Insieme causano una neurodegenerazione per sfociare in un declino cognitivo che ha come primo sintomo la perdita della memoria.
A VOLTE L’AMILOIDE SENZA DANNI COGNITIVI
Giovanni Frisoni riprende l’accenno alla prima medicina diretta contro il depositarsi delle placche amiloidi, l'Aducanumab, approvata dalle autorità americane e invece non approvata da quelle europee, per dubbi sulla sua efficacia e sulla sua sicurezza. «Eppure – dice lo scienziato – se si ferma la produzione di beta-amiloide secondo lo schema della cascata deterministica si dovrebbe interrompere la perdita di neuroni e, dunque, la perdita di memoria. Il che non si è visto. Per non dire che tutti troviamo persone con amiloide che non hanno sintomi cognitivi. Che cosa protegge il loro cervello dalla neurotossicità? Questo è importante».
TENERE PRESENTI FATTORI GENETICI E AMBIENTALI
Lo sviluppo a cascata, spiegano i ricercatori svizzeri, si verifica sì, ma soltanto nel gruppo con la mutazione genetica ereditata che, per fortuna, sono molto pochi: nel loro caso il deficit cognitivo comincia già fra i 30 e i 50 anni. Negli altri casi l’avvio verso la demenza differisce a seconda della presenza o meno della variante e4 del gene Apoe che costituisce un grande fattore di rischio: due terzi di quanti ce l’hanno prima o poi cominciano a mostrare sintomi di Alzheimer. Infine ecco il terzo gruppo privo di mutazioni genetiche per i quali le proteine neurotossiche appaiono un notevole, ma non unico fattore di rischio. Come già detto, contano le cause ambientali. «Quasi la metà dei nostri pazienti appartengono a questo terzo gruppo – sottolinea il professor Frisoni. – Il nostro modello probabilistico suggerisce dunque di tener presenti sia i fattori genetici sia quelli ambientali. Ed è quando il loro peso supera la resilienza del cervello che comincia il decadimento cognitivo».
PREVENZIONE: IL MODELLO DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI
Aggiungono a Ginevra che questa nuova visione va considerata al pari del modello accettato per le malattie cardiovascolari. Quando si fa prevenzione cercando di diminuire i fattori di rischio, come l’ipertensione o l’obesità, prima che ci sia mai stato un attacco di cuore o un ictus, si raccoglie una significativa riduzione di casi negli anni a seguire. Se invece si agisce sui fattori di rischio dopo che si è già verificato un problema al cuore o al cervello, si raccoglieranno frutti piuttosto ridotti. Dunque, come per per la salute cardiovascolare, è essenziale curare le persone a rischio prima che appaiano i sintomi del disturbo.
SCREENING PER IL RISCHIO, PRIMA DELLA MALATTIA
Quel che va fatto allora sono screening per individuare le persone a rischio di sviluppare l’Alzheimer per curarle in questa fase come si fa con gli antipertensivi per abbassare la “rischiosa” pressione alta del sangue prima che causi malattie cardiovascolari. Ma screening come? I metodi sono complessi e costosi. Vero, ribattono, ma adesso esistono nuovi strumenti capaci di individuare la presenza di beta-amiloide e di proteina tau nel sangue. Con un semplice esame simile agli altri che si fanno di routine si potrebbe quindi individuare il “rischio” demenza e intervenire. Anche con farmaci utili nelle fasi precoci della malattia, farmaci che debbono ancora arrivare ma per i quali Aducanumab con la sua famiglia di ritrovati potrebbe essere un primo importante apripista. «Prevenire l’Alzheimer: è questa la strada», conclude il professor Giovanni B. Frisoni.
Serena Zoli
Giornalista professionista, per 30 anni al Corriere della Sera, autrice del libro “E liberaci dal male oscuro - Che cos’è la depressione e come se ne esce”.