Sperimentato su animali, nelle fasi iniziali della malattia inibisce la proteina che causa l’Alzheimer. I risultati da una ricerca italiana
La ricerca contro l’Alzheimer non si ferma. La cura per quella che è la più comune forma di demenza in età avanzata non è ancora stata identificata, ma una sperimentazione sui topi ha dimostrato che una nuova molecola (un piccolo peptide) somministrata per via intranasale nelle fasi precoci della malattia è efficace in un modello animale.
La molecola infatti inibisce l’accumulo di una delle due proteine che causano la patologia, la proteina beta amiloide, proteggendo i neuroni dai suoi effetti tossici. Lo studio, pubblicato sulla rivista Molecular Psychiatry, è stato realizzato dai ricercatori dell’Istituto neurologico Carlo Besta e dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, di Milano.
RICAVATA DA UNA VARIANTE DELLA BETA-AMILOIDE
La nuova strategia messa a punto per contrastare l’Alzheimer si basa su una scoperta fatta in precedenza dagli stessi ricercatori, che avevano identificato una variante naturale della proteina beta amiloide, che protegge chi ne è portatore dallo sviluppo dalla malattia. Proprio l’identificazione di questa variante ha permesso agli scienziati di sintetizzare la molecola (un piccolo frammento di sei aminoacidi) utilizzata nello studio.
LA PORTATA DELLO STUDIO
La scoperta rappresenta un passo in avanti per una possibile strategia di trattamento nella fase precoce della malattia, ma l’efficacia della molecola sull’uomo è ancora da dimostrare (la ricerca riguarda infatti un modello animale) e, in questa fase, non è prevista una sperimentazione, né un approccio terapeutico sull’uomo.
I VANTAGGI TERAPEUTICI
I ricercatori che hanno condotto lo studio hanno sintetizzato i vantaggi di questa nuova strategia:
la somministrazione per via intranasale del peptide, in una fase precoce della malattia, protegge le sinapsi (le connessioni fra neuroni) dagli effetti neurotossici della proteina beta-amiloide;
- inibisce la formazione di aggregati della stessa proteina (rappresentati nell'immagine), che sono i responsabili di gran parte dei danni cerebrali nell’Alzheimer
- rallenta il deposito della beta-amiloide sotto forma di placche nel cervello
- non sembra provocare effetti collaterali importanti, come l’anomala attivazione del sistema immunitario che si riscontra invece in altre potenziali terapie per l’Alzheimer.
«Questi effetti multipli costituiscono pertanto una combinazione apparentemente vincente nell’ostacolare lo sviluppo della malattia nei topi» spiegano Fabrizio Tagliavini e Giuseppe Di Fede, neurologi del Besta che hanno condotto lo studio.
SAREBBE ECONOMICO E SEMPLICE DA USARE
Ma non basta. Come sottolinea il dottor Mario Salmona, biochimico dell’istituto Mario Negri rappresentano un vantaggio anche «i bassi costi di produzione del piccolo peptide, in confronto agli elevatissimi costi di altri approcci terapeutici potenziali per l’Alzheimer come gli anticorpi monoclonali, la semplicità e la scarsa invasività del trattamento per via intranasale, peraltro già utilizzato con successo per altre categorie di farmaci».
I NUMERI IN ITALIA E NEL MONDO
Secondo un report redatto nel 2021 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel mondo ci sono 55 milioni di persone con una forma di demenza; diventeranno 78 milioni entro il 2030 e 139 milioni entro il 2050. In Italia, si stima che la demenza colpisca oltre 1.400.000 persone, destinate a diventare 2.300.000 nel 2050. La malattia di Alzheimer è la più comune causa di demenza e rappresenta il 50/60 per cento di tutti i casi. Ad oggi, i meccanismi alla base di questa patologia non sono chiari: la maggior parte degli scienziati ritiene che possa essere legata non ad un’unica causa, ma ad una serie di fattori.
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