La chemioprevenzione è una strategia che non ha finora dimostrato di avere un impatto sulla mortalità per tumore della prostata
L’assunzione di farmaci allo scopo di prevenire l’insorgenza di alcune forme di cancro (chemioprevenzione) è una delle frontiere su cui la ricerca è impegnata da tempo. A oggi esistono diverse ipotesi in corso di verifica, ma ancora nessuna applicazione concreta.
La chemioprevenzione prevede infatti di un uso molto particolare dei farmaci. Si tratta infatti di far assumere un medicinale a una persona sana per prevenire un ipotetico caso di malattia. È un approccio che deve rispondere a criteri molto stringenti. Tanto per cominciare il farmaco deve avere effetti collaterali quasi nulli o comunque trascurabili. Deve avere un piccolo o nessun impatto sulla qualità di vita di chi lo assume. E, infine, come tutti gli altri, deve dimostrare la propria efficacia.
Nel caso della prostata, da tempo si indaga la possibilità che due farmaci usati contro l’ipertrofia prostatica benigna (finasteride e dutasteride) possano ridurre le probabilità di sviluppare un tumore. Entrambi i farmaci hanno dimostrato di avere un’effettiva efficacia nella riduzione delle probabilità di ammalarsi. Questo però non è stato ritenuto sufficiente per giustificare un loro utilizzo, dopo un’analisi approfondita. Nel caso della finasteride, infatti, l’assunzione del medicinale è sì associata a riduzione dei casi di tumore, con però un particolare importante: i casi che si presentano tendono a essere più aggressivi della media.
Anche per questo motivo la strategia di prevenzione non ha finora dimostrato di avere un impatto sulla mortalità per tumore della prostata.