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Laura Costantin
pubblicato il 26-11-2018

Un identikit molecolare per il tumore alla vescica



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Il cancro alla vescica può andare incontro a recidive e metastasi. Maria Beatrice Morelli lavora su un test sulle cellule di tumore circolanti per valutare l’invasività della malattia

Un identikit molecolare per il tumore alla vescica

Il tumore della vescica è una neoplasia molto frequente in Europa, specialmente nella popolazione maschile: è infatti al quarto posto tra i tumori diagnosticati negli uomini dopo i 50 anni e in urologia è secondo solo al cancro alla prostata. Un'importante caratteristica di questo tumore è la tendenza a dare recidive e metastasi. L’identificazione e la diagnosi precoce di queste forme più aggressive è pertanto fondamentale per scegliere le strategie terapeutiche più efficaci. Sostenuta dal progetto SAM - Salute Al Maschile di Fondazione Umberto Veronesi, Maria Beatrice Morelli, biotecnologa dell’Università di Roma La Sapienza, sta studiando un metodo per l’analisi delle cellule tumorali circolanti e punta a sviluppare un test rapido e non invasivo in grado di identificare precocemente le forme tumorali più invasive.

 

Maria Beatrice, ci parli più nel dettaglio del tuo progetto di ricerca?

«I tumori solidi, come quello alla vescica, possono rilasciare nel sangue periferico le cellule responsabili della formazione delle metastasi, chiamate cellule tumorali circolanti (CTC, ndr). L’obiettivo della mia ricerca è isolare queste cellule in pazienti affetti da tumore alla vescica per studiarle a livello funzionale e caratterizzare il comportamento dei loro geni. I risultati di questo studio permetteranno di migliorare la conoscenza e la comprensione del processo che porta alla progressione e alla metastasi nel cancro alla vescica».

 

Come potrebbero essere utilizzate dal punto di vista clinico le informazioni raccolte?

«L’idea è di arrivare ad identificare un set di marcatori specifici correlati alla capacità invasiva e di metastasi del tumore. Grazie a questo nuovo approccio, un semplice prelievo di sangue permetterà di caratterizzare e classificare i pazienti in base al grado di malignità delle cellule tumorali circolanti».

 

Possiamo quindi pensare in un futuro ad un test rapido e non invasivo per una terapia personalizzata?

«Questa ovviamente è la speranza, anche se siamo ancora alle fasi iniziali del progetto». 

 

Un momento della tua vita professionale che vorresti dimenticare e uno invece da incorniciare.

«Vorrei dimenticare tutti i periodi di fine contratto che ho vissuto dal dottorato ad oggi e l’affanno per trovare i finanziamenti necessari a proseguire le mie ricerche. Un momento professionale da incorniciare è sicuramente quello in cui ho saputo di aver vinto il finanziamento della Fondazione Umberto Veronesi. La comunicazione mi è arrivata allo scadere di un assegno di ricerca e per me è stata una grande opportunità che mi ha permesso di continuare a svolgere il mio lavoro. Ringrazio per questo la Fondazione, impegnata a sostenere la ricerca e a dare a tanti giovani come me una grande opportunità».

 

Qual è aspetto della ricerca che ti piace di più?

«L’imprevedibilità. Fare ricerca è un continuo porsi domande, vivere per il piacere di indagare e scoprire ogni giorno cose nuove».

 

Qual è a tuo avviso il filone di ricerca più promettente per i prossimi decenni?

«Sicuramente la diagnosi precoce che permette, in tempi rapidi, di trovare la cura più adeguata per ciascun paziente».

 

Pensi che ci siano dei lati oscuri nella scienza?

«Penso che sia la politica, più che la scienza, ad avere dei lati oscuri e delle ambiguità. Credo infatti che manchi a livello politico un impegno vero e concreto nel riconoscere l’importanza della scienza e delle professionalità che vi operano».

 

Sei moglie e mamma di due bei maschietti. Se uno dei tuoi figli ti dicesse un giorno che vuole fare il ricercatore, come reagiresti?

«Lo sosterrei nelle sue scelte come hanno fatto i miei con me».

 


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