L'accumulo di ferro può essere un effetto ma (forse) anche una risposta al tumore della prostata. Alla scoperta della ricerca di Federica Maccarinelli
Il tumore della prostata è una delle neoplasie più diffuse nella popolazione maschile. Sebbene la prognosi risulti spesso favorevole, soprattutto in caso di diagnosi precoce, questa malattia rappresenta una delle principali cause di mortalità tra gli uomini con più di 50 anni.
Nelle forme più aggressive e in quelle che rischiano di ripresentarsi sotto forma di recidive nel tempo, oggi la terapia di deprivazione degli androgeni è il trattamento d'elezione. Esistono tuttavia dei pazienti nei quali, dopo una prima fase di risposta positiva ai farmaci, si possono sviluppare delle resistenze alla terapia farmacologica. In questi casi, il tumore può evolvere verso una forma tumorale più aggressiva caratterizzata da prognosi sfavorevole, poche opzioni terapeutiche.
Tra le caratteristiche del tumore alla prostata c’è un’alterata presenza di ferro, un minerale essenziale alla vita cellulare. Qual è il legame tra questo elemento e lo sviluppo della neoplasia? È possibile intervenire con i farmaci per limitare lo sviluppo del tumore?
Federica Maccarinelli, biotecnologa e ricercatrice all’Università degli Studi di Brescia, sta conducendo il suo progetto di ricerca grazie a una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi nell’ambito del progetto SAM - Salute al Maschile. Raccontiamo il suo lavoro nel corso del mese dedicato alla salute maschile e alla prevenzione del tumore alla prostata.
Federica, raccontaci qualcosa di più sul legame tra ferro e tumori prostatici.
«In generale, molte cellule tumorali mostrano frequentemente una marcata alterazione del normale metabolismo del ferro che porta a un accumulo del metallo nella cellula. Questo processo favorisce la crescita della malattia e l’angiogenesi tumorale, ovvero lo sviluppo di nuovi vasi sanguigni che possono rifornire di nutrimento il tumore. È anche vero però che il sovraccarico di ferro può rappresentare una fonte di danno all’interno della cellula. Pertanto può essere considerato un interessante approccio terapeutico contro le cellule trasformate. Recentemente è stato infatti identificato un tipo di morte cellulare ferro-dipendente, chiamata ferroptosi. Si tratta di un processo diverso dall’apoptosi, dalla necrosi e dall'autofagia (tre diversi tipi di morte cellulare, ndr) con differenti percorsi biochimici attivati».
Voi cosa state studiando?
«Per meglio approfondire il legame tra il ferro e il tumore della prostata, stiamo studiando due opposti approcci. Il primo è basato sull'utilizzo dei chelanti del ferro, cioè molecole che legano il ferro con alta affinità, per diminuire il carico del metallo nelle cellule di carcinoma prostatico. Il secondo consiste nella “sovraccaricare” le cellule di ferro per facilitare la produzione di radicali liberi e l’ossidazione dei lipidi cellulari».
Due vie opposte per raggiungere il vostro scopo: cosa dicono i dati preliminari?
«Gli esperimenti in vitro, condotti su linee cellulari di carcinoma prostatico murino e umano, hanno dimostrato che il trattamento di riduzione del carico di ferro intracellulare con chelanti del ferro inibisce la proliferazione delle cellule tumorali della prostata. Inoltre, è stato dimostrato che il trattamento combinato con un attivatore di ferroptosi (RSL3) e ferro ammonio citrato (FAC) riduce la vitalità cellulare, aumentando la produzione di superossidi a livello dei mitocondri e delle membrane lipidiche e compromettendo in modo significativo la proliferazione e la migrazione delle cellule tumorali».
Avete anche qualche risultato in vivo, utilizzando modelli animali?
«In vivo il trattamento con RSL3 è in grado di attivare il processo di ferroptosi specificamente nelle cellule tumorali inoculate sottocute e il trattamento combinato, RSL3+ferro, riduce la crescita delle masse tumorali. Dati preliminari ottenuti da esperimenti condotti sul modello murino di adenocarcinoma alla prostata dimostrano che il trattamento con RSL3 riduce la crescita e progressione del tumore a livello della prostata. Si tratta di un promettente punto di partenza per dimostrare l'efficacia della modulazione del carico di ferro intracellulare come nuovo approccio terapeutico nel trattamento del carcinoma della prostata».
Federica, sei mai stata all’estero per un’esperienza di ricerca?
«Per approfondire i miei studi sul ruolo del ferro nel cervello ho frequentato per tre mesi il laboratorio di neuroscienze del dipartimento di neurochirurgia della Pennsylvania State University, a State College. Ho vissuto in un ambiente internazionale con ricercatori provenienti da varie parti del mondo, con i quali ho avuto la fortuna di confrontarmi, anche se famiglia e amici mi sono mancati tantissimo».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«Sono una persona molto curiosa e mi affascina conoscere e capire meccanismi biologici e molecolari per poi arrivare a sfruttare tale conoscenza in ambito medico».
Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?
«Salute. La ricerca scientifica può portare a un miglioramento della qualità della vita».
Un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare.
«Un momento che vorrei incorniciare è stato l'assegnazione della mia prima borsa di Fondazione Umberto Veronesi, nel 2019».
Una figura che ti ha ispirato nella vita personale e professionale.
«Mio padre e mia madre, due persone che si completano e mi hanno sempre sostenuto».
Quale messaggio hai fatto tuo?
«Mio padre mi ha insegnato la determinazione, soprattutto in campo lavorativo. Mia madre sta tutt'ora cercando di insegnarmi a capire la sensibilità delle persone».
Cosa avresti fatto se non avessi fatto il ricercatore?
«Credo l’ingegnere meccanico».
In che modo potrebbe essere aiutato il lavoro di chi fa scienza?
«Penso che in Italia lavorino nella ricerca scientifica molte menti brillanti. In generale darei maggiore importanza alla meritocrazia, dimenticando i favoritismi. Oggi percepisco fiducia nel mio lavoro e credo che la figura del ricercatore in Italia sia considerata positivamente, soprattutto in questo periodo di emergenza Covid-19».
Hai famiglia?
«Convivo».
Se un giorno tuo figlio ti dicesse di voler diventare ricercatore, come reagiresti?
«Penserei: ottima scelta. Ma mi preoccuperebbe la sua situazione economica».
Una cosa che vorresti vedere almeno una volta nella vita.
«Mi piacerebbe visitare l'Africa».
Sei felice?
«Sì, molto. Ho scalato montagne per continuare a fare questo lavoro. È una grande soddisfazione».
Dicci la cosa che ti fa ridere a crepapelle.
«Quando cado in mezzo alle persone».
Infine, cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?
«La ricerca scientifica può portare a un miglioramento della qualità della vita e tutti possiamo averne bisogno».