L'incidenza del più frequente tumore primitivo del fegato è associata al sovrappeso e all'obesità. Capirne i meccanismi è l’obiettivo della nostra ricercatrice Chiara Raggi
L'obesità rappresenta uno dei principali problemi di salute pubblica in tutto il mondo occidentale, oltre ad aumentare l’incidenza di mortalità in una varietà di tumori umani, compreso il carcinoma epatocellulare. Il sovrappeso e l’obesità aumentano notevolmente il rischio di epatocarcinoma soprattutto nell’uomo adulto. Nonostante il notevole numero di individui affetti da carcinoma epatico, gli studi epidemiologici non hanno fornito informazioni conclusive riguardo ai meccanismi tramite i quali l’obesità influenza l’insorgenza e la progressione di questo tumore del fegato. Un contributo in questa direzione sta provando a darlo Chiara Raggi (nella foto), biologa originaria di Lucca che attualmente lavora all’Università di Firenze grazie a una borsa di ricerca di Fondazione Veronesi.
Chiara, raccontaci nei dettagli la tua ricerca su obesità e tumore del fegato.
«Il mio obiettivo è valutare il ruolo di una specifica molecola, la chemochina CCL2, nella patogenesi dell’epatocarcinoma indotto dall’obesità. Le chemochine sono molecole proteiche chiave dell’infiammazione epatica associata con l'obesità indotta da fibrosi e cirrosi. I livelli della chemochina CCL2 sono elevati nel siero di pazienti affetti da epatocarcinoma, e rappresentano quindi un possibile biomarcatore per la diagnosi. Ma quali sono i meccanismi molacolri che associano la chemochina CCL2 alla progressione del tumore? Voglio esplorarne il ruolo attraverso un modello animale specifico e l’analisi di una casistica di tessuti umano».
Quali potranno essere le future applicazioni pratiche della tua ricerca?
«I risultati della mia ricerca contribuiranno in maniera duplice alla progresso della conoscenza in questo ambito: completando il quadro della patogenesi e aprendo la strada allo sviluppo di un nuovo approccio terapeutico per il trattamento dell’epatocarcinoma».
Sei stata a lavorare anche negli Stati Uniti: cosa ti ha spinto a tornare in Italia?
«Ho lavorato presso i National Institutes of Health a Bethesda (Maryland) per cinque anni. È stata una grandissima esperienza professionale e di vita, ma l’Italia mi è mancata moltissimo e dentro di me ho sempre pensato che l’esperienza americana sarebbe stata una gran bella parentesi nella mia vita. Non ho voluto stabilirmi negli Stati Uniti anche se avevo tutte le possibilità per farlo. Per questo sono rientrata in Italia sostenuta dall’entusiasmo e da una grande incoscienza (perché sappiamo molto bene la situazione della ricerca qui da noi) per costruire qualcosa di bello anche nel nostro paese, in particolare nella mia regione, la Toscana».
Qual è il momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare?
«Il momento in cui hanno accettato la mia prima pubblicazione a primo nome dopo tanti sacrifici ma anche il mio primo finanziamento vinto in Italia».
Come ti vedi fra dieci anni?
«Esattamente come ora, fatico a vedermi in modo diverso! Con la testa negli esperimenti e sul bancone. Ovviamente mi rendo conto che la situazione in Italia è molto dura per chi come me decide di perseguire il grande sogno della ricerca. Fino ad ora mi ritengo tanto fortunata perché nonostante i grandi sacrifici ho sempre avuto la possibilità di fare ciò che ho sempre desiderato».
Cosa del tuo lavoro eviteresti volentieri?
«Il senso di precarietà e incertezza con il quale noi ricercatori dobbiamo convivere ogni giorno».
Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?
«Innovazione e futuro».
Cosa avresti fatto se non avessi fatto la ricercatrice?
«L’archeologa, quindi sempre alla ricerca di qualcosa di sconosciuto».
Qual è per te il senso profondo della ricerca?
«La ricerca è curiosità, è l’andare oltre ciò che vediamo, è l’essere sempre in movimento con il pensiero, è non accontentarsi, è il cercare una piccola tessera di un grande mosaico».
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Chiara Segré
Chiara Segré è biologa e dottore di ricerca in oncologia molecolare, con un master in giornalismo e comunicazione della scienza. Ha lavorato otto anni nella ricerca sul cancro e dal 2010 si occupa di divulgazione scientifica. Attualmente è Responsabile della Supervisione Scientifica della Fondazione Umberto Veronesi, oltre che scrittrice di libri per bambini e ragazzi.