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Francesca Borsetti
pubblicato il 02-06-2021

Obesità e differenze di genere: il cibo come regolatore del metabolismo



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La risposta metabolica alle diverse “diete” dipende anche dal genere: la ricerca di Chiara Ruocco

Obesità e differenze di genere: il cibo come regolatore del metabolismo

L’obesità è descritta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come uno dei principali problemi di salute pubblica a livello mondiale. L’eccesso di tessuto adiposo nell’organismo aumenta il rischio di sviluppare patologie croniche come diabete, cardiopatie e tumori. Diversi studi hanno mostrato come il genere possa influenzare lo sviluppo di queste patologie metaboliche: uomini e donne, infatti, presentano una progressione delle malattie e una risposta ai trattamenti molto diversi tra loro.

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Scoprire le basi biologiche responsabili di queste differenze consentirebbe di impostare percorsi preventivi, diagnostici e terapeutici specifici per ciascuno dei due sessi. Chiara Ruocco è ricercatrice post-doc presso il Dipartimento di Biotecnologie Mediche e Medicina dell’Università degli Studi di Milano, e studia come specifiche formulazioni della dieta, arricchita in aminoacidi liberi, possano prevenire o curare l’obesità in modelli murini. La sua ricerca è sostenuta per tutto il 2021 grazie a una borsa di Fondazione Umberto Veronesi.

Chiara, come nasce l'idea del vostro lavoro?

«Il mio progetto di ricerca valuta l’influenza del genere sugli effetti metabolici in differenti regimi dietetici: il cibo rappresenta un serbatoio di molecole segnale (si pensi agli aminoacidi, agli acidi grassi e altri cofattori) in grado di influenzare specifiche vie metaboliche, comportandosi come veri e propri “ormoni regolatori”. Per questo motivo, l’approccio dietetico proposto nel mio progetto potrebbe avere grandi potenzialità nella prevenzione e cura delle malattie metaboliche, quali obesità e diabete».

Perché avete scelto di orientarvi su questa linea di ricerca?

«Dal punto di vista sanitario, la prevenzione e la cura delle diverse patologie non sempre prende in considerazione il genere dell’individuo. Molti studi hanno dimostrato che le malattie metaboliche insorgono più frequentemente nel genere maschile rispetto a quello femminile, il quale risulta protetto dagli estrogeni. La loro importanza si evidenzia proprio con l’avvento della menopausa, quando i livelli di estrogeni diminuiscono. In questa condizione il metabolismo energetico nelle femmine diventa più simile a quello maschile e anche l’incidenza delle malattie metaboliche tra le donne si avvicina a quella degli uomini».

Quali sono gli aspetti poco noti da approfondire?

«Sono ancora molte le domande che ruotano intorno alle differenze di genere in campo biologico. Oltre al ruolo degli estrogeni è stata ipotizzata una diversa funzionalità dei mitocondri, gli organelli intracellulari che agiscono come vere e proprie “centrali energetiche” nelle cellule. Numerosi studi confermano la presenza di “mitocondri potenziati” nelle femmine in età fertile: sembrerebbero più efficienti nella risposta allo stress e nel proteggere l’organismo dall’insorgenza di malattie. Estrogeni e mitocondri sono inoltre strettamente legati: gli ormoni femminili attivano questi organelli promuovendone la riparazione e regolandone le molteplici funzioni. Durante la menopausa queste capacità si perdono».

Come intendete portare avanti il vostro progetto durante quest’anno?

«Vogliamo valutare la risposta metabolica a una dieta ricca di acidi grassi saturi in tre modelli murini: nei topi maschi, nei topi femmina e nei topi femmina in menopausa. Sottoporremo gli animali a due regimi dietetici. Il primo, chiamato SFA (saturated fatty acids), è costituito da una parte di lardo. Il secondo è una modificazione del precedente: la componente proteica della SFA sarà sostituita da una specifica formula di aminoacidi liberi essenziali, una nuova dieta che abbiamo chiamato SFA-EAA (essential aminoacids)».

Quali risultati vi aspettate?

«Sulla base dei dati preliminari ipotizziamo che il consumo cronico della dieta SFA sia in grado di indurre obesità solo nei maschi e nelle femmine in menopausa, probabilmente a causa della presenza di una disfunzione mitocondriale. Al contrario, le femmine in età fertile dovrebbero risultare protette dallo sviluppo di obesità grazie all’azione degli estrogeni e di mitocondri più efficienti. La dieta SFA-EAA, invece, potrebbe essere in grado di prevenire o curare l’obesità sviluppata nei maschi e nelle femmine in menopausa in maniera più marcata rispetto alle femmine in età fertile. Valuteremo inoltre i meccanismi d’azione legati all’effetto della dieta SFA-EAA. Dati preliminari ottenuti in topi maschi hanno mostrato che la dieta SFA-EAA stimola l’attività mitocondriale e attiva la termogenesi nel tessuto adiposo bruno (o BAT, brown adipose tissue), regolando il metabolismo energetico. Tuttavia, non possiamo escludere il coinvolgimento di altri meccanismi d’azione, in particolare a livello del fegato o sul microbiota intestinale. Infine, estenderemo le nostre osservazioni al tessuto adiposo bianco (WAT, o white adipose tissue), un organo di accumulo degli acidi grassi, importante nella regolazione del bilancio energetico».

Quali prospettive apre, anche a lungo termine, per la salute umana?

«Lo studio dei meccanismi molecolari legati al genere nelle diverse “strategie nutrizionali” è di particolare importanza - oltre che di attualità - e potrebbe portare a una riduzione dei costi della sanità pubblica. I risultati ottenuti potranno mettere in luce la potenzialità della manipolazione dei macronutrienti della dieta, in particolare delle proteine. Questo studio getta le basi per identificare diete disegnate per il singolo paziente, specifiche per genere e patologia».

Chiara, ricordi il momento in cui hai capito che la tua strada era quella della scienza?

«La mia passione per la ricerca è nata durante il corso di studi: ricordo ancora quando - fierissima - sono andata a comprare il mio primo camice per accedere ai laboratori universitari. Ho poi frequentato il corso di Farmacologia del prof. Maurizio Raiteri, che aveva lavorato insieme a Rita Levi Montalcini: quando ho iniziato la tesi nel suo dipartimento all’Università di Genova, mi sono innamorata di questa materia e non l’ho più abbandonata».

Un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare e uno invece da dimenticare.

«Anche se potrebbe sembrare banale e scontato, vorrei incorniciare il giorno in cui ho ricevuto la notizia della vittoria della borsa di studio di Fondazione Umberto Veronesi. È stato un bel traguardo che mi ha riempito di orgoglio. Per quanto riguarda i momenti da dimenticare, c’è un episodio che mi ha segnato in particolare. Durante la tesi di laurea stavo eseguendo un importante esperimento insieme alla mia dottoranda di riferimento: dovevo aggiungere un reagente e ho sbagliato, mandando a monte tutto il lavoro di quel giorno. A casa ho pianto per ore, ma questo episodio mi ha insegnato che quando si esegue un esperimento bisogna sempre essere molto attenti e concentrati».

Come ti vedi fra dieci anni?

«Spero di avere ancora la possibilità di fare ricerca e di aver raggiunto finalmente un po’ di indipendenza e di stabilità».

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Fare ricerca è una vera sfida contro le proprie capacità e i propri limiti. È necessario avere molta costanza per cercare tutti i giorni di superare le delusioni e gli insuccessi legati a questo lavoro. La vera spinta sono la curiosità e la consapevolezza che c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire».

E cosa invece eviteresti volentieri?

«Nella vita quotidiana di laboratorio snellirei la burocrazia a carico del ricercatore. Invece, più in generale, eviterei il problema del precariato nella realtà italiana e la corsa alla pubblicazione a ogni costo, che rischia di penalizzare la qualità della ricerca stessa».

Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?

«Collaborazione, studio, disciplina e immaginazione».

Una figura che ti ha ispirato nella tua vita personale?

«Il mio papà. È stato malato per tanti anni, ma ha sempre affrontato le difficoltà con il sorriso. Mi ha insegnato la forza e a perseverare a testa alta, spingendomi a fare di più con fiducia e sostegno. Purtroppo, se ne è andato pochi anni dopo la mia laurea e non ha potuto vedere tutto quello che ho costruito oggi. Sarebbe stato sicuramente molto orgoglioso di questa borsa di studio».

Qual è l’insegnamento più importante che ti ha lasciato?

«Essendo una persona estremamente seria e poco incline allo scherzo, mi ha insegnato che sorridere e prendere la vita con leggerezza è importante sia nella vita professionale che lavorativa».

Qual è per te il senso che dà un significato profondo alle tue giornate lavorative?

«Il pensiero di potermi mettere a disposizione della comunità. Con le nostre scoperte possiamo davvero cambiare le sorti dei pazienti, migliorandone la qualità e l’aspettativa di vita. L’esperienza che stiamo vivendo oggi a seguito della pandemia da COVID19 sta dimostrando proprio questo».

Percepisci sfiducia intorno alla figura del ricercatore?

«Oggi la rete fornisce infinite possibilità di informazione: talvolta le persone pensano di riuscire a comprendere argomenti molto complessi leggendo qualche articolo online. Questo mi fa pensare che ci sia sfiducia verso gli scienziati: si ritiene di potersi sostituire con un semplice click a uno specialista che ha studiato la materia per anni. La divulgazione scientifica rappresenta lo strumento per far comprendere argomenti estremamente complessi anche ai non addetti ai lavori, in modo che tutti possano prendere decisioni in maniera consapevole».

Cosa fai nel tempo libero?

«Mi piace moltissimo leggere e cucinare e adoro viaggiare con la mia famiglia».

Hai famiglia?

«Ho un marito e due splendidi figli di 3 e 7 anni».

Se un giorno uno dei tuoi figli ti dicesse che vuole fare il ricercatore, come reagiresti?

«Sicuramente lo sosterrei, ma lo metterei di fronte al fatto che si tratta di un lavoro molto duro, spesso frustrante, che richiede perseveranza e pazienza».

Sei felice della tua vita?

«Sì, sono felice. Dal punto di vista familiare ho tutto ciò che potrei desiderare. Dal punto di vista lavorativo, nonostante gli alti e bassi, ho la fortuna di poter fare quello che amo e non mi sembra di lavorare nemmeno per un giorno».

La cosa che più ti fa arrabbiare?

«Le menzogne, di carattere cerco sempre di essere sincera e mi aspetto lo stesso trattamento dalle persone che mi circondano».

La cosa che ti fa ridere a crepapelle?

«Assolutamente i miei figli, che sono in grado di inventarsi le cose più assurde».

Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?

«Vorrei ringraziarle: il loro impegno nel sostenere la ricerca ci consente di avere le risorse per la nostra attività. Il finanziamento di progetti innovativi in tutti i campi scientifici è un investimento per la prevenzione e cura di molte patologie. Un gesto di questo tipo, di qualunque entità, può aiutare davvero molto persone».

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