Anticorpi specifici che riconoscono le cellule di tumore al seno e trasportano “a domicilio” i farmaci antitumorali: è la linea di ricerca su cui lavora la nostra Camilla Sampaoli
Il tumore al seno colpisce 1 donna su 8 ed è il più diffuso nella donna. Tuttavia, rispetto anche solo a 20-30 anni, quando spesso rappresentava una condanna per le pazienti, oggi il tumore al seno non fa più così paura: la sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi è dell’87% che può arrivare fino al 98% se il tumore viene identificato al di sotto di un cm di dimensione e adeguatamente trattato. Un grande successo, reso possibile dal lavoro incessante di medici e ricercatori in tutto il mondo. Naturalmente, la ricerca non può mai fermarsi. L’obiettivo: trovare cure anche per i tumori al seno più difficili da trattare e per combattere le forme che diventano resistenti alle terapie. È quello che sta facendo anche Camilla Sampaoli, ricercatrice sostenuta nel 2015 nell’ambito di Pink is Good, il progetto di Fondazione Veronesi contro il tumore al seno. Camilla, trent’anni, è veneziana di nascita e romana di adozione. È nella capitale che Camilla ha conseguita la laurea specialistica in Genetica e Biologia Molecolare e il Dottorato di Ricerca in Medicina Molecolare presso l’Università La Sapienza. Attualmente è ricercatrice post-doc presso l’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma, nel laboratorio di Immunologia diretto dal Dottor Patrizio Giacomini.
Camilla, ci descrivi il tuo progetto di ricerca?
«Io studio un tipo abbastanza aggressivo di tumore al seno, le cui cellule possiedono alti livelli del recettore dei fattori di crescita detto ERBB2 (HER2/Neu). Fortunatamente, esistono oggi terapie bersaglio, tra le quali gli anticorpi monoclonali contro ERBB2 hanno un ruolo di spicco. Nelle versioni più ‘aggiornate’ anticorpi come Trastuzumab e Pertuzumab sono uniti a potenti farmaci antineoplastici. Grazie a questi anticorpi terapeutici la prognosi dei tumori ERBB2-positivi è drasticamente migliorata. Noi vogliamo andare oltre, creando anticorpi ricombinanti di nuova generazione, che legano regioni distinte di ERBB2 e inducono effetti antineoplastici nuovi e complementari. Li coniugheremo a nanoparticelle cariche di quantità finora inimmaginabili di farmaci antitumorali, e selezioneremo anticorpi e nanoconiugati che colpiscono quei tumori che mal rispondono o sviluppano resistenza alle terapie di prima linea trastuzumab e pertuzumab».
Quali possono essere, anche a lungo termini, le implicazioni per la cura del tumore al seno?
«Un anticorpo ricombinante con caratteristiche uniche potrebbe rappresentare un’alternativa valida nei casi in cui le terapie attuali dovessero fallire. In particolare, la creazione di nanogabbie guidate da anticorpi contenenti farmaci antitumorali consentirebbe di veicolare elevate quantità di farmaco direttamente sul tumore, aumentando l’efficacia terapeutica e riducendo gli effetti tossici della chemioterapia, con un conseguente miglioramento della salute e della qualità di vita dei pazienti».
Avete già ottenuto qualche risultato?
«Alcuni esperimenti hanno dimostrato la capacità di almeno uno degli anticorpi ricombinanti prodotti nel nostro laboratorio di bloccare la proliferazione di cellule di tumore mammario, agendo anche in sinergia con gli anticorpi Trastuzumab e Pertuzumab, già in uso clinico».
Perché hai scelto di intraprendere la strada della ricerca?
«Sono sempre stata attratta dalla scienza. Sono una persona curiosa e mi piace capire come funzionano le cose, mi piacciono i lavori manuali e tutto ciò che ti consente di vedere un risultato concreto che ti rende orgoglioso. Nutro una profonda fiducia nel fatto che la ricerca possa migliorare la vita delle persone, e mi piace pensare di poter dare anch’io un piccolo contributo».
Come ti vedi fra dieci anni?
«Spero con tutta me stessa di essere ancora innamorata di questo lavoro come lo sono ora, e sempre con un camice addosso davanti ad un bancone».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«La possibilità di imparare ogni giorno cose nuove e la prospettiva di scoprire qualcosa che prima non sapevamo. Certe volte è un po’ come tornare bambini, con le stesse curiosità e aspettative, per questo quando un esperimento riesce la soddisfazione è tanto grande. Mi piace il fatto che alla gratificazione lavorativa si accompagna spesso una vera e propria conquista personale».
E cosa invece eviteresti volentieri?
«Purtroppo sono diversi i “lati oscuri” del lavoro del ricercatore, soprattutto in Italia dove spesso si deve far fronte ulteriori difficoltà date dalla mancanza di fondi e prospettive. Tutto questo genera innumerevoli rallentamenti nel lavoro e grande insoddisfazione nelle persone che amano questo mestiere ma non sempre si trovano nelle condizioni adatte a svolgerlo al meglio».
Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?
«Un mondo quasi infinito di possibilità, dove chiunque può contribuire per il progresso di tutti. È come un enorme puzzle dove il fatto di mettere insieme due tasselli nel modo giusto può sembrare insignificante in un primo momento, ma alla fine permette di realizzare qualcosa di completo».
Se dovessi scommettere su un filone di ricerca biomedica che fra 50 anni avrà prodotto un concreto avanzamento su cosa punteresti?
«Penso che considerando gli enormi passi in avanti fatti nella terapia genica e nell’immunoterapia applicate ad alcune patologie, in particolare i tumori, continuare ad investire in questo tipo di studi possa portare a risultati concreti».
Qual è il senso profondo che ti spinge a fare ricerca e dà un significato alle tue giornate lavorative?
«Considero la ricerca non soltanto un lavoro, ma una passione profonda, e mi ritengo una persona fortunatissima per il fatto di avere la possibilità di fare un lavoro che amo. Metto tutta me stessa in quello che faccio, e per questo a volte è dura non scoraggiarsi di fronte agli insuccessi lavorativi, perché diventano insuccessi personali. D’altra parte però, i piccoli progressi di ogni giorno mi danno enormi soddisfazioni e amo il fatto che ogni esperimento rappresenti una sfida e una sorpresa. Ho capito che per ogni cosa che imparo ce ne sono mille che non so, e credo che la “fame” di sapere, conoscere e scoprire sia l’elemento che più di tutti mi spinge a fare ricerca».
Chiara Segré
Chiara Segré è biologa e dottore di ricerca in oncologia molecolare, con un master in giornalismo e comunicazione della scienza. Ha lavorato otto anni nella ricerca sul cancro e dal 2010 si occupa di divulgazione scientifica. Attualmente è Responsabile della Supervisione Scientifica della Fondazione Umberto Veronesi, oltre che scrittrice di libri per bambini e ragazzi.