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Agnese Collino
pubblicato il 20-11-2017

Mappare con precisione il tumore della prostata



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L’asportazione chirurgica di un tumore prostatico deve essere quanto più precisa, per evitare recidive e complicazioni. Francesca Garello studia una molecola che aiuterebbe a tracciarne i confini

Mappare con precisione il tumore della prostata

Nell’ultimo decennio, il dosaggio dell'antigene prostatico specifico (Psa) nel sangue, laddove consigliato, ha considerevolmente aumentato la possibilità di individuare i tumori della prostata in fase precoce. Inoltre, nei casi in cui il tumore sia ancora circoscritto, la radioterapia e la rimozione dell’intera ghiandola prostatica si rivelano interventi particolarmente efficaci. Tuttavia le condizioni essenziali per il buon esito della chirurgia e per evitare la comparsa di recidive nel corso degli anni sono l’asportazione completa delle cellule malate e la preservazione dei tessuti sani e funzionanti. Grazie al progetto SAM – Salute al Maschile di Fondazione Umberto VeronesiFrancesca Garello conduce un progetto di ricerca all’Università di Torino, dove punta a sviluppare una molecola che permetta visualizzare chiaramente e con precisione i confini del tumore alla prostata. Uno strumento prezioso sia per la fase pre-operatoria nel corso dell’operazione chirurgica.
 

Francesca, dicci di più sul tuo progetto di ricerca.

«Lo scopo del mio progetto è lo sviluppo di una molecola che funga da sonda in grado di riconoscere e legarsi in modo specifico ad una proteina presente ad alti livelli unicamente nelle cellule cancerose di prostata. La sonda sarà duale: potrà cioè essere visualizzabile sia nella risonanza magnetica pre-operatoria, necessaria a pianificare la chirurgia, sia nella video-chirurgia intra-operatoria, utile a guidare i chirurghi nella rimozione dei tessuti patologici e nella preservazione dei fasci neurovascolari, minimizzando così la possibilità di recidive e la comparsa di effetti collaterali come incontinenza e impotenza».

 

Quali sono quindi le potenzialità di questo strumento per la salute dei pazienti?

«L’impiego di questa molecola potrebbe diminuire drasticamente il numero di ricadute e di effetti indesiderati a breve-medio termine dall’intervento di prostatectomia. Inoltre lo sviluppo di sonde in grado di riconoscere in modo specifico le cellule di tumore della prostata potrà essere sfruttato anche per mettere a punto una terapia mirata per questa malattia».

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Sei mai stata all’estero a fare un’esperienza di ricerca?

«Grazie al progetto Erasmus ho avuto l’opportunità di svolgere la mia tesi di laurea sperimentale in Francia. Per sette mesi ho lavorato a Besançon presso l’Université de Franche-Comté, per un progetto in collaborazione con l’azienda Gattefossé».


Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

«È sicuramente stata un’esperienza meravigliosa. È stato lì che ho capito che la ricerca non ha orari e prevede qualche sacrificio, ho imparato a lavorare con cura e dedizione, e infine ho imparato a fronteggiare da sola problemi di svariata natura. Ho conosciuto persone provenienti da tutto il mondo con cui ho stretto legami forti, figure che mi hanno insegnato tanto sia professionalmente che umanamente. L’unico aspetto negativo è stato sicuramente la nostalgia di casa: mi sono mancati gli amici e la famiglia, ma soprattutto il nostro modo di vivere, nonostante le numerose contraddizioni tutte italiane. C’è stato un giorno in cui ho pensato: “il mio sogno è continuare a fare questo lavoro, ma in Italia”. E quando ho avuto la possibilità di tornare e proseguire l’attività di ricerca, non ho avuto dubbi».

Ricordi il momento in cui hai capito che la tua strada era quella della scienza?

«La ricerca mi ha affascinato sin da piccola: fare esperimenti di qualsiasi tipo è sempre stata una mia forte passione. Durante una breve vacanza-studio a Londra sono rimasta profondamente colpita dai campus universitari inglesi, e il mio sogno è diventato quello di poter diventare una scienziata e trasferirmi lì. Il vero colpo di fulmine però è scoccato mentre ero in Francia, nel laboratorio in cui ho svolto la tesi: lì ho capito che quello era proprio il lavoro che volevo fare».

 

Il momento della tua vita professionale che vorresti dimenticare e quello che invece ricordi con più piacere.

«Vorrei dimenticare tutti i mesi di incertezza al termine di ciascun contratto di lavoro. Mesi in cui credi di dover lasciar perdere tutto, e di dover scegliere tra la ricerca di un lavoro alternativo o il trasferimento all’estero. Ecco perché il momento più bello è stato sicuramente quello in cui ho saputo di aver vinto il finanziamento della Fondazione Umberto Veronesi: questi fondi mi hanno permesso di continuare a coltivare la mia passione nel mio Paese. Oggi in Italia perseguire la carriera per cui si ha studiato non è assolutamente scontato: conosco molte persone meritevoli e capaci che sono state costrette ad emigrare per poter seguire le proprie inclinazioni. Mi ritengo molto fortunata».

 

Cosa avresti fatto se non avessi fatto la ricercatrice?

«Penso che avrei fatto la farmacista, che poi è l’attività per cui ho studiato».

 

Cosa ne pensi dei complottisti e delle persone contrarie alla scienza per motivi “ideologici”?

«Penso che oggi con la diffusione del web e dei social network sia molto facile incorrere in false notizie, e di fidarsi di chi non ha le qualifiche per poter trattare criticamente temi caldi come le vaccinazioni, la sperimentazione animale e così via. Alcuni hanno la costante sensazione che ci sia un’entità che nasconde qualcosa per i propri interessi, nei più svariati ambiti, per cui alla prima voce fuori campo che conferma questi timori, queste persone si lasciano trascinare, senza riflettere sul fatto che nell’ambito biomedico come in tutti gli altri occorre affidarsi al parere degli esperti e non di sconosciuti. L’unica possibilità per contrastare i complottismi è cercare di confrontarsi in modo ragionevole, con apertura e con dati concreti».

 

Cosa fai nel tempo libero?

«Adoro stare in mezzo alla natura: appena riesco a ritagliarmi un po’ di tempo mi dedico al trekking in montagna o a lunghe pedalate in bici. E poi amo viaggiare, scoprire nuove culture, meravigliarmi di fronte a paesaggi mozzafiato, e leggere libri di qualsiasi genere».

 

Hai un libro o un film del cuore?

«I libri ed i film che mi sono davvero piaciuti sono tantissimi, non saprei scegliere. Ma uscendo dai soliti classici, uno dei film che mi ha fatto maggiormente riflettere è stato “La ricerca della felicità”. Mi ha commosso vedere come si può essere felici con poco: oggi sempre più spesso incontriamo gente che ha tutto, eppure si sente profondamente triste. È un film che mi ha aiutata ad apprezzare ogni giorno tutto ciò che ho».

 

Se potessi scegliere, con quale personaggio famoso ti piacerebbe andare a cena?

«Credo che cenerei con Rita Levi Montalcini o con Margherita Hack: mi lascerei affascinare dai loro racconti. E poi chiederei, fra le loro scoperte, quali sono quelle che per loro sono state più inaspettate e quali quelle che le hanno più entusiasmate».

 

Agnese Collino
Agnese Collino

Biologa molecolare. Nata a Udine nel 1984. Laureata in Biologia Molecolare e Cellulare all'Università di Bologna, PhD in Oncologia Molecolare alla Scuola Europea di Medicina Molecolare (SEMM) di Milano, Master in Giornalismo e Comunicazione Istituzionale della Scienza all'Università di Ferrara. Ha lavorato nove anni nella ricerca sul cancro e dal 2013 si occupa di divulgazione scientifica


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