Ilaria Guerriero punta a studiare piccole vescicole prodotte dalle cellule di cancro prostatico che, trasportando una proteina pro-tumorale, potrebbero indurre lo sviluppo della malattia
La comunicazione tra cellule è resa possibile da un insieme di meccanismi che consentono lo scambio di informazioni: uno di questi è rappresentato dagli esosomi, piccole vescicole che trasportano al loro interno proteine, Dna e Rna per trasferire messaggi da una cellula all’altra. Purtroppo anche i tumori sfruttano questo meccanismo. Nei pazienti affetti da un tumore della prostata, per esempio, si rilevano alti livelli di esosomi nelle urine e nel sangue, e queste vescicole sembrano svolgere un ruolo importante nella progressione della malattia.
Analizzando il contenuto degli esosomi prodotti da cellule di cancro prostatico, è possibile valutare il potenziale coinvolgimento di queste vescicole nel trasporto di messaggi che stimolano la progressione tumorale. Proprio di questo si occupa Ilaria Guerriero che, grazie al progetto SAM - Salute Al Maschile, potrà trascorrere sei mesi in Norvegia, presso l’Oslo University Hospital Institute for Cancer Research.
Ilaria, qual è nel dettaglio l’obiettivo del tuo progetto?
«La mia ipotesi è che gli esosomi possano essere importanti per il trasporto e rilascio del “recettore β2-adrenergico”: si tratta di una proteina notoriamente coinvolta nella progressione del cancro prostatico, anche se il suo ruolo nell’attivazione delle cellule tumorali non è ancora stato chiarito. Lo scopo del mio progetto sarà proprio quello di stabilire con certezza se il recettore β2-adrenergico sia rilasciato attraverso gli esosomi e, in questo caso, studiare i meccanismi molecolari attraverso cui avviene questo processo per provare a bloccare il trasferimento di informazioni pro-tumorali da una cellula all’altra. I risultati ci permetteranno di aumentare le conoscenze sul cancro alla prostata e di trovare nuovi bersagli farmacologici da colpire per impedirne lo sviluppo».
Questa sarà la tua prima esperienza all’estero: qual è stato il tuo percorso professionale finora?
«Mi sono laureata all’Università degli Studi del Sannio di Benevento, per poi proseguire l'attività di ricerca nel laboratorio di oncologia molecolare dell’Istituto di Ricerche Genetiche Biogem di Ariano Irpino, dove ho lavorato per sette anni: dalla tesi di laurea magistrale fino al post-dottorato. Per mancanza di fondi sono stata costretta a cambiare argomento di ricerca e ho dovuto lavorare per un anno in un’azienda: con la borsa di Fondazione Umberto Veronesi approdo nuovamente nel campo dell’oncologia e spero di non uscirne mai più. Per accettare questo riconoscimento ho rinunciato ad altri due anni di contratto in azienda. Per molti è stata una pazzia, per me è inseguire un sogno, ed è quello che ho scelto di fare. Fare ricerca all’estero è sempre stato un mio grande desiderio, ma spesso non si creano le condizioni giuste: a volte è difficile spostarti, se hai un ruolo di supervisione di progetti in laboratorio e non ci sono altre persone alle quali lasciare il compito. In altri casi, sono i momenti difficili della vita che non ti danno la giusta serenità per allontanarti. Questo finanziamento mi consentirà quindi di realizzare anche questo sogno: ho scritto un progetto con una ricercatrice di Oslo, quindi lavorerò per sei mesi nel suo laboratorio. La Norvegia è una terra meravigliosa e sarà l'occasione per arricchire il mio bagaglio culturale e personale».
Perché hai scelto di intraprendere la strada della ricerca?
«Quando ho visto mia madre soffrire: ho deciso che avrei fatto qualcosa per non vedere altre persone morire quando un cancro me l'ha portata via. Aveva 47 anni e io 18: in quell’istante sono diventata una donna forte. Il suo ricordo mi sostiene sempre e, nonostante le mille difficoltà di questo lavoro, ogni piccolo traguardo è dedicato a lei, affinché possa essere fiera di me. Aver vinto questa borsa ha significato donarle un sorriso, quello che di sicuro mi avrebbe rivolto ricevendo la notizia. Lei ha conosciuto Umberto Veronesi durante la malattia, tantissimi anni fa: sembra un cerchio che si chiude, la possibilità di fare un’esperienza di ricerca che porta il nome di quello che è stato un grande luminare della medicina».
Hai un ricordo particolarmente caro della tua mamma?
«Adoravo guardare un film sdraiata sul divano, con la testa poggiata sulle sue gambe, che seduta guardava il film con me. L'ho fatto anche da più grande, finché ho potuto».
Qual è il film che hai amato di più?
«Un film che mi è piaciuto molto e che, per certi aspetti, mi rappresenta, è “Padri e Figlie”. La protagonista non riesce a lasciarsi amare perché teme l’abbandono: mi ritrovo molto in questa paura, mi rende sempre molto diffidente nei confronti degli altri. Ma poi arriva chi insiste fino alla fine per non perderti: capisci in quel momento che per qualcuno sei importante e, soprattutto, che qualcuno è importante per te. Torniamo sempre da chi amiamo, ogni volta che siamo in difficoltà».
Come ti vedi fra dieci anni?
«Mi vedo con la mia famiglia, composta da me, il mio attuale compagno ed il nostro dolcissimo cane Noè. Mi vedo madre, ci spero tanto. Mi vedo in Italia: non mi dispiacerebbe un futuro nel mio Paese, a patto che ci siano le condizioni adeguate. Mi vedo ancora ricercatrice, magari con un bagaglio importante alle spalle che mi possa consentire di fare al meglio questo splendido lavoro».
E se un giorno tuo figlio o figlia ti dicesse che vuole fare ricerca?
«Sarei felice, amo questo lavoro. Ma gli direi di prepararsi a gioie e dolori, e in quei momenti io e il suo papà, anche lui ricercatore, non faremo mai mancare il sostegno».
Una figura che ti ha ispirato nella tua vita personale e professionale.
«Il mio idolo è e sarà sempre Rita Levi Montalcini. Oltre le sue doti di ricercatrice, ho sempre ammirato la sua forza, la determinazione che ha avuto nel mettere la ricerca prima di ogni cosa, il suo difendere le donne e la loro intelligenza, la sua capacità di far sperare. Le sue parole sono sempre state un monito per me: “Non temere i momenti difficili, il meglio viene da lì"».
Cosa fai nel tempo libero?
«Sono sempre stata presa in giro perché studiavo troppo: in realtà ho tantissime altre passioni! Amo fare puzzle, leggere, vedere film, fare giardinaggio, passeggiare nella natura, giocare con mia nipote, chiacchierare con gli amici… a dirla tutta, il tempo libero non mi basta mai!».
Quando è stata l’ultima volta che ti sei commossa?
«Mi commuovo spesso: credo che piangere non sia affatto una fragilità, quanto uno sfogo che mostra la sensibilità di una persona. Ho pianto molto per lavoro, per le ingiustizie, per le difficoltà economiche, perché vedevo altri andare avanti e li credevo sempre migliori di me, e questo sgretolava la mia autostima. Questa nuova occasione mi consentirà di rimboccarmi le maniche e provare a costruire qualcosa di bello che mi ripaghi dei dispiaceri di questo lavoro, di tutte le volte che ho dovuto lavorare senza essere pagata, o di quelle in cui ho sofferto perché non c'era più posto per me in laboratorio, nonostante io fossi apprezzata dal mio capo. Fondazione Umberto Veronesi mi sta aprendo una porta, spero di farne tesoro anche per il futuro».
Agnese Collino
Biologa molecolare. Nata a Udine nel 1984. Laureata in Biologia Molecolare e Cellulare all'Università di Bologna, PhD in Oncologia Molecolare alla Scuola Europea di Medicina Molecolare (SEMM) di Milano, Master in Giornalismo e Comunicazione Istituzionale della Scienza all'Università di Ferrara. Ha lavorato nove anni nella ricerca sul cancro e dal 2013 si occupa di divulgazione scientifica