I tumori al seno triplo negativi non hanno una terapia dedicata, ma gli anticorpi bispecifici potrebbero rappresentare una svolta innovativa: la ricerca di Giovanna Talarico
Il tumore al seno triplo negativo è una forma altamente aggressiva di tumore mammario e rimane, ancora oggi, il tumore al seno più difficile da trattare a causa della mancanza di terapie specifiche. L’immunoterapia è un insieme di strategie innovative per il trattamento di molti tumori: l’idea alla base è stimolare il sistema immunitario del paziente contro le cellule cancerose, così da potenziarne l’azione.
Giovanna Talarico è ricercatrice presso l’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) di Milano, dove studia gli anticorpi bispecifici, una particolare classe di anticorpi progettati per legare contemporaneamente il tumore e alcune cellule del sistema immunitario. Questa caratteristica li rende un interessante esempio di immunoterapia, oltre che una strategia promettente per migliorare le cure a disposizione. Il suo progetto è sostenuto per il 2024 da una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi dedicata ai tumori femminili.
Giovanna, come nasce l'idea del vostro lavoro?
«Nasce dalla consapevolezza che il carcinoma mammario triplo negativo è attualmente il tumore al seno con meno opzioni terapeutiche. Sono quindi necessari ulteriori studi in grado di aprire nuove prospettive terapeutiche contro questa forma tumorale così aggressiva».
Perché avete scelto questa linea di ricerca?
«Abbiamo scelto di focalizzarci sul tumore al seno triplo negativo perché presenta tassi di recidiva superiori a quelli degli altri sottotipi. Questa forma inoltre mostra una marcata propensione a generare metastasi, in particolare a livello polmonare e cerebrale».
Cosa ancora non sappiamo?
«Bisogna studiare nel dettaglio il “profilo” molecolare e genetico di questo sottotipo tumorale, cioè l’insieme delle mutazioni che caratterizzano il tumore (i tumori triplo negativi, infatti, non possiedono nessuno dei recettori che possono essere utilizzati come bersaglio per terapie mirate, N.D.R). In questo modo si potrebbe intervenire precocemente con terapie mirate e personalizzate».
Come condurrete il progetto?
«L’obiettivo sarà sviluppare un nuovo approccio terapeutico utilizzando gli anticorpi bispecifici. Si tratta di farmaci con un meccanismo d’azione innovativo: sono molecole capaci di riconoscere da un lato la cellula tumorale e dall’altro di “presentarla” alle cellule T del sistema immunitario. Questa mediazione da parte dell’anticorpo bispecifico può favorire il riconoscimento delle cellule cancerose da parte del sistema immunitario, riducendo inoltre gli effetti collaterali del trattamento. Valuteremo anche se questi anticorpi, in combinazione con la chemioterapia, sono in grado di sviluppare una “memoria” contro il tumore, che potrebbe conferire alle pazienti una protezione a lungo termine da eventuali ricadute».
Quali sono le prospettive a lungo temine?
«I risultati di questa ricerca potrebbero porre le basi per l’utilizzo di nuove terapie per il tumore al seno triplo negativo, migliorando l’efficacia del trattamento e aumentando le opzioni terapeutiche a disposizione dei pazienti».
Giovanna, sei mai stata all’estero per un’esperienza di ricerca?
«No, non sono mai andata all’estero. Principalmente non mi si è mai presentata l’occasione e poi ho preferito non allontanarmi dall’Italia per questioni familiari. Mi sarebbe piaciuto fare un’esperienza negli Stati Uniti, ma credo che anche in Italia si faccia un’ottima ricerca. Per questo motivo non rimpiango assolutamente le scelte fatte: mi hanno permesso di crescere professionalmente pur rimanendo nel mio Paese».
Hai qualche episodio particolare che ti è capitato durante il tuo lavoro?
«Mi sono trovata a una cena post-congresso con il professor James Patrick Allison, premio Nobel per la Medicina 2018. Il prof. Allison è uno degli scopritori dei cosiddetti “checkpoint immunologici” che hanno rivoluzionato il trattamento di alcuni tipi di tumori grazie proprio all’utilizzo dell’immunoterapia».
Perché hai scelto di intraprendere la strada della ricerca?
«Mi sono avvicinata alla ricerca per motivi personali: da piccola ho perso mia nonna per un carcinoma al pancreas e ho promesso a lei che avrei voluto “scoprire” una cura per i pazienti con il cancro».
C’è un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare e uno invece che vorresti dimenticare?
«Sicuramente la vincita della mia prima borsa di studio è stata una grande emozione, ma anche ogni pubblicazione scientifica mi porta a ripensare a tutti i sacrifici e gli sforzi fatti per raggiungerla. Vorrei invece dimenticare la competizione malsana che a volte si crea nel mondo della ricerca e i molti momenti di sconforto. Questi ultimi mi sono però serviti per crescere e diventare la ricercatrice che sono oggi».
Come ti vedi fra dieci anni?
«Il mio desiderio sarebbe quello di crescere professionalmente fino a diventare responsabile di un importante progetto di ricerca. Spero di avere una stabilità economica che non mi porti a rinunciare a questo sogno».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«La soddisfazione che si prova quando si verifica che l’ipotesi iniziale era giusta e si scopre quell’elemento o informazione che ricompone tutti i tasselli».
E cosa invece eviteresti volentieri?
«Eviterei molto volentieri quel senso di precarietà e di incertezza economica e lavorativa che contraddistingue il mondo della ricerca».
Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?
«Futuro e speranza di vivere in un mondo senza cancro».
C’è una figura che ti ha ispirato nella tua vita personale o professionale?
«Non ce n’è una sola, anche perché ogni giorno si apprende sempre qualcosa di nuovo sia lavorativamente sia personalmente. Senza dubbio i miei genitori sono per me un grande esempio di onestà, rispetto e forte dedizione per il lavoro».
Qual è l’insegnamento più importante che ti hanno lasciato?
«Di inseguire sempre i miei sogni e guardare qualsiasi cosa dal lato positivo».
Cosa avresti fatto se non avessi fatto la ricercatrice?
«Sicuramente il medico, ma forse sarei stata troppo empatica e avrei sofferto per ogni insuccesso».
In cosa, secondo te, possono migliorare la scienza e la comunità scientifica?
«La scienza può migliorare nella comunicazione verso chi non è del settore, attraverso iniziative di divulgazione. Un altro aspetto da implementare è il sistema di finanziamento pubblico: sarebbe importante creare percorsi di carriera per i giovani e rendere il lavoro del ricercatore un “vero” e proprio lavoro».
Cosa fai nel tempo libero?
«Mi piace viaggiare e passeggiare in mezzo alla natura. Adoro il mare anche d’inverno e andare al cinema e a teatro».
Quando è stata l’ultima volta che ti sei commossa?
«Sono parecchio empatica e sensibile, quindi per farmi commuovere ci vuole veramente poco. Mi commuovo guardando un film o dopo aver ricevuto un complimento che mi fa star bene».
Qual è la cosa di cui hai più paura?
«Il cancro».
Sei soddisfatta della tua vita?
«Attualmente lo sono, ma si può sempre avere di più».
La cosa che più ti fa arrabbiare?
«La mancanza di rispetto, l’ingiustizia e la gelosia».
Hai un ricordo a te caro di quando eri bambina?
«Il sabato mattina da piccola, quando andavo con mia nonna a fare la spesa».
Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?
«Grazie è la prima cosa che vorrei dire. Se oggi sono qui a raccontare un po' di me e della mia vita è grazie ai donatori. Sapere che ci sono persone che fanno anche sacrifici per sostenere la mia ricerca scientifica mi dà la carica per lavorare e impegnarmi sempre di più per cercare nuove cure».
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