L'utilizzo della combinazione bulevirtide e peginterferone alfa-2a si è dimostrata più efficace della terapia standard. Dopo anni di fallimenti l'epatite Delta può essere controllata
Combinare due molecole -bulevirtide e peginterferone alfa-2a- sembrerebbe la miglior strategia per curare le infezioni croniche da epatite Delta. Ad affermarlo è uno studio presentato al congresso dell'European Society of Liver Disease (EASL) e pubblicato sulle pagine del New England Journal of Medicine. Un risultato importante se si considera che questa forma di epatite è tra le più difficili da curare e sino a qualche anno fa non erano disponibili farmaci efficaci.
CHE COS'È L'EPATITE DELTA?
L'epatite Delta è un'infezione virale del fegato causata da un virus a RNA che utilizza una parte del virus dell'epatite B per replicarsi. Questo significa che il virus, per compiere il suo ciclo e manifestarsi, ha bisogno che la persona sia infettata anche dall'epatite B. I pazienti positivi per epatite Delta hanno dunque una doppia infezione. Scoperta dall'italiano Mario Rizzetto a fine anni '70, si stima che nel mondo sia presente in circa 10-20 milioni di persone e che circa il 10% di coloro con che sono positivi al virus dell'epatite B lo siano anche alla forma Delta.
UN'EPATITE ATIPICA E MOLTO DANNOSA
A differenza delle altre forme di epatite che impiegano anni a danneggiare il fegato, quella Delta è la più severa in quanto progredisce assai rapidamente, fino a 10 volte di più rispetto all’Epatite B. L’infezione nel tempo provoca un’infiammazione cronica che predispone l'organo a sviluppare cirrosi, necrosi e tumore del fegato.
COME SI CURA?
Sul fronte delle terapie, come fu per l'epatite C per decenni, l'unica strategia utilizzata per la cura dell'epatite Delta era la somministrazione dell'interferone, molecola non utilizzabile nei pazienti anziani e fragili a causa dei forti effetti collaterali. Una situazione che si è sbloccata con l'arrivo della bulevirtide, una molecola rivoluzionaria in quanto ha permesso di trattare anche senza interferone quei pazienti che prima non potevano ricevere alcuna terapia. Pur non eradicando il virus, bulevirtide ha permesso a molti pazienti di ridurre la carica virale e il conseguente danno epatico. Per quei pazienti non trattabili con interferone la molecola rappresenta ad oggi la prima e unica alternativa al trapianto di fegato.
COMBINARE DIVERSE STRATEGIE
Ma la necessità di migliorare i risultati della bulevortide ha spinto la ricerca verso nuove opzioni come, ad esempio, le terapie combinate. Nello studio presentato ad EASL un gruppo internazionale di epatologi ha testato combinazione di bulevirtide e peginterferone alfa-2a. Alla base della decisione ci sono due ragioni: da un lato l'idea che la combinazione di questi due meccanismi possa potenziare l'efficacia complessiva del trattamento, dall'altro che l'utilizzo di due farmaci con meccanismi d'azione diversi possa ridurre la probabilità che il virus sviluppi resistenza, migliorando così le prospettive a lungo termine del trattamento.
I RISULTATI
Obiettivo primario dello studio era la presenza di RNA del virus dell'epatite D (HDV) non rilevabile a 24 settimane dalla fine del trattamento. Gli autori hanno diviso i partecipanti allo studio in tre gruppi: il primo ha ricevuto solo peginterferone alfa-2a (180 μg/settimana) per 48 settimane. Il secondo bulevirtide (2 mg/giorno o 10 mg/giorno) più peginterferone alfa-2a (180 μg/settimana) per 48 settimane, seguito da bulevirtide alla stessa dose giornaliera per ulteriori 48 settimane. Il terzo bulevirtide (10 mg/giorno) in monoterapia per 96 settimane. Dalle analisi è emerso che il gruppo che ha ricevuto 10 mg di bulevirtide in combinazione con peginterferone alfa-2a ha mostrato i migliori risultati. A 24 settimane dal termine del trattamento, il 46% dei pazienti aveva livelli non rilevabili di RNA del virus, rispetto al 12% nel gruppo di monoterapia con bulevirtide. A 48 settimane dal termine del trattamento, la percentuale di pazienti con RNA non rilevabile era ancora del 46% nel gruppo di combinazione, mentre era solo del 12% nel gruppo di monoterapia con bulevirtide. Risultati importanti che indicano chiaramente l'utilità della doppia strategia.
Daniele Banfi
Giornalista professionista del Magazine di Fondazione Umberto Veronesi dal 2011. Laureato in Biologia presso l'Università Bicocca di Milano - con specializzazione in Genetica conseguita presso l'Università Diderot di Parigi - ha un master in Comunicazione della Scienza ottenuto presso l'Università La Sapienza di Roma. In questi anni ha seguito i principali congressi mondiali di medicina (ASCO, ESMO, EASL, AASLD, CROI, ESC, ADA, EASD, EHA). Tra le tante tematiche approfondite ha raccontato l’avvento dell’immunoterapia quale nuova modalità per la cura del cancro, la nascita dei nuovi antivirali contro il virus dell’epatite C, la rivoluzione dei trattamenti per l’ictus tramite la chirurgia endovascolare e la nascita delle nuove terapie a lunga durata d’azione per HIV. Dal 2020 ha inoltre contribuito al racconto della pandemia Covid-19 approfondendo in particolare l'iter che ha portato allo sviluppo dei vaccini a mRNA. Collabora con diverse testate nazionali.