Secondo uno studio canadese a ridurre i consumi di sodio dovrebbero essere soltanto persone con ipertensione. Ma in Italia usiamo ancora troppo sale
«Una dieta a basso contenuto di sodio è utile soltanto se si è ipertesi». Anzi no. «L’Organizzazione Mondiale della Sanità lo dice sulla base di solide evidenze: il consumo giornaliero di sale deve essere inferiore a cinque grammi, che equivalgono a circa due grammi di sodio». All’interno della comunità scientifica è andato in scena un botta e risposta, negli ultimi giorni. Al centro della discussione il consumo di sale e il suo ruolo nei meccanismi di insorgenza dell’ipertensione, che rimangono confermati: nonostante uno studio pubblicato su The Lancet.
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LA RICERCA CONTESTATA
I ricercatori canadesi della McMaster University (Hamilton) hanno lanciato un messaggio che ha avuto un’ampia eco. «Una dieta a basso contenuto di sale si associa a un aumento del rischio di malattie cardiovascolari e di morte rispetto a un consumo medio». Gli scienziati sono giunti a questa conclusione dopo aver coinvolto più di centotrentamila persone in un’analisi mirata a valutare l’associazione tra l’apporto alimentare di sodio e l’incidenza di eventi e morti cardiovascolari. Dai risultati è emerso che seguire una dieta a basso contenuto di sodio, indipendentemente dalla presenza o meno di ipertensione, si associa a una maggiore frequenza di attacchi cardiaci, ictus e decessi rispetto a un'assunzione media.
Parlando di ridotte quantità di sodio, i ricercatori fanno riferimento a meno di tre grammi al giorno: equivalenti a circa 7,5 di sale. I risultati sono stati descritti come «estremamente importanti» da Andrew Mente, docente di epidemiologia clinica e biostatistica alla McMaster University e prima firma della pubblicazione. «Perché ribadiscono quanto sia importante ridurre l’assunzione di sale, se si è ipertesi. Ma per tutti gli altri la stessa scelta potrebbe avere un effetto controproducente».
LA BOCCIATURA DEGLI SCIENZIATI ITALIANI
Il messaggio, lanciato attraverso le colonne di una rivista prestigiosa, è stato respinto dalla comunità scientifica italiana. L’Istituto Superiore di Sanità, definendo l’articolo «frutto di un’indagine di scarsa qualità», ha sentito la necessità di fare chiarezza: «Il sale da cucina favorisce l’aumento della pressione arteriosa, principale causa di infarto e ictus, la calcolosi renale, l’osteoporosi, e alcuni tumori: in particolare quello allo stomaco». Secondo Pasquale Strazzullo, direttore del dipartimento ipertensione e prevenzione cardiovascolare del Policlinico Federico II di Napoli e presidente della Società Italiana di Nutrizione Umana, «lo studio è inadeguato, perché molti dei partecipanti erano soggetti ad alto rischio cardiovascolare: ipertesi, diabetici, dislipidemici, già colpiti da un infarto o da uno scompenso cardiaco. La determinazione più appropriata per stimare il consumo di sale è l’escrezione di sodio nelle urine delle ventiquattro ore. E non c’è alcuna plausibilità biologica per spiegare come mai un consumo di sale di cinque grammi al giorno debba essere più dannoso di uno di dodici».
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GLI ITALIANI DEVONO DIMEZZARE I CONSUMI DI SALE
Il consumo di sale nella popolazione italiana adulta è in media circa doppio rispetto alle raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e maggiore nelle regioni del Sud, rispetto a quelle settentrionali e centrali. Il dato è emerso da una ricerca pubblicata sul British Journal of Medicine, in cui è stato valutato il consumo alimentare di sodio e di potassio in un campione nazionale di popolazione generale adulta. I partecipanti residenti nelle regioni del Sud Italia presentavano un consumo medio di sale superiore agli 11 grammi al giorno e non conforme a quello rilevato nel resto del Paese. Dall’indagine è emerso pure che le persone occupate in lavori manuali presentano un consumo di sale maggiore rispetto a coloro che sono impegnati in ruoli amministrativi e manageriali. Idem dicasi in relazione al grado di istruzione: con gli italiani in possesso della licenza elementare che consumano più sale rispetto ai diplomati e ai laureati.
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).