I conti li ha fatti l’Università di Haifa. Un terzo dei settantenni vengono dimessi con deficit di vario tipo. Fra le cause l’immobilità, la malnutrizione e il disorientamento
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Ma è mai possibile che dei settantenni e oltre entrino in ospedale, per un qualsivoglia disturbo, del tutto autosufficienti e ne escano, uno su tre, minati nel saper badare a se stessi? O hanno un disordine cognitivo o necessitano - improvvisamente - di un bastone, del pannolone o non riescono più a mangiare. E poi: uno su tre, addirittura? Lo dice l’Università di Haifa in Israele che ha fatto i conti. Lo sostiene («la proporzione è credibile») il presidente della Società italiana di Geriatria e Gerontologia, Nicola Ferrara, docente all’Università Federico II di Napoli. «Sarebbe logico il contrario: uno si ricovera per un infarto o una polmonite, e si pensa ne esca meglio di quando è entrato, no? E invece, spesso...».
LA RICERCA
Gli israeliani hanno seguito 900 casi di persone dai 70 in su ricoverate per patologie in fase acuta e il dottor Zisberg appare quasi indignato quando riferisce di un caso emblematico: «Un signore di 78 anni, che era in grado di camminare, andare in bagno, mangiare da solo prima della degenza, viene ricoverato per 3-4 giorni per curare un’aritmia, e non si capisce perché sia poi tornato a casa col bisogno di un bastone per appoggiarsi e dei pannoloni!».
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ANCHE DOPO UN MESE
Cosa c’entra con questi cambiamenti le cure che ha fatto? A volte si tratta addirittura soltanto di esami. Eppure – dicono ad Haifa – succede un po’ in tutto il mondo. E se è uno su tre che si ritrova bisognoso di un qualche sostegno appena dimesso, addirittura il 46 per cento ancora dopo un mese accusa una qualche perdita di funzionalità e autonomia. Nel testo, pubblicato sul Journal of the American Geriatrics Society, gli studiosi dell’Università di Haifa descrivono quali sono le cause di questa decadenza (non imputabile alle cure) indotta dall’ospedale. Ed elencano mancanza di movimento, perché molti restano - e vengono lasciati - a letto per tutto il ricovero; adozione al di là delle reali necessità del catetere o del pannolone per urinare; medicine per il sonno non necessarie oppure diverse da quelle cui il paziente era abituato; nutrizione inadeguata: in media i partecipanti allo studio hanno dimostrato di aver ricevuto soltanto il 60% delle calorie raccomandate al giorno, e questo o perché non piaceva il cibo o non si aveva appetito, infine per i digiuni prima dei vari esami da sostenere.
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LA VERA CAUSA
«La premessa di fondo», spiega il professor Ferrara, «è che l’ospedale è costruito sulle esigenze dell’ospedale stesso, e non dei malati. Persino la dieta, per chi soffre di specifici disturbi, spesso non è personalizzata. Viene servito tutto a tutti, uguale. Inoltre, per restare al cibo, alcune volte non piace ed è obiettivamente cattivo, e c’è il fatto per esempio della cena servita alle sei del pomeriggio quando il paziente è abituato a farla alle 8-9 di sera». Le conseguenze di un ricovero in ospedale più o meno lungo in un anziano spesso ha questi tratti: «Un disorientamento spaziale e temporale perché i ritmi e gli spazi dell’ospedale sono diversi da quelli abituali e se un giovane si può riadattare velocemente al proprio ambiente rientrandovi, per un anziano non è così tante volte. Resta spaesato, confuso».
Il declino funzionale che può accusare una volta dimesso non è solo cognitivo, ma di movimento. «L’anziano ricoverato non deve restare allettato, ma muoversi ed essere stimolato a muoversi. Spesso viene fatto il contrario. Occorre de-ospedalizzare al massimo. Abbreviare i ricoveri non per risparmiare stavolta, ma per agevolare il buono stato del paziente anziano. Si tratta di un ciclo di esami? Se appena si può, vanno organizzati negli ambulatori. E poi c’è il rischio depressione… Ecco, nel reparto anziani più che il medico, il ruolo centrale è degli operatori che devono mettere in atto la terapia riabilitativa e la terapia occupazionale. Il malato in età va stimolato e coinvolto, sempre».
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REPARTI SU MISURA
Nicola Ferrara avanza un’altra proposta: «Nel reparto pediatrico ti accorgi subito di essere in una zona per bambini: pareti colorate, giocattoli, un letto grande per l’adulto vicino al lettino, gli insegnanti accanto agli infermieri, c’è una grande e continua presenza di familiari. Invece se si entra in un reparto geriatrico, nulla lo differenzia da quelli per giovani e adulti. Anche qui la famiglia dovrebbe avere permessi più lunghi di stare accanto al parente anziano, che ha bisogno di rimanere il più attaccato possibile al suo mondo. E’ tutta l’organizzazione che andrebbe studiata a misura di anziano, esattamente come si fa con la pediatria, a misura di bambino».
Serena Zoli
Giornalista professionista, per 30 anni al Corriere della Sera, autrice del libro “E liberaci dal male oscuro - Che cos’è la depressione e come se ne esce”.