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Redazione
pubblicato il 13-11-2012

Le brutalità del carcere sono conseguenza di una giustizia sbagliata



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Attore e regista, Ascanio Celestini si è sempre interessato di istituzioni totali o alienanti. Ha incominciato dodici anni fa con i luoghi di prigionia poi con il manicomio, la fabbrica e i nuovi luoghi del lavoro del presente, dal supermercato al call center

Le brutalità del carcere sono conseguenza di una giustizia sbagliata

Ascanio Celestini (Roma, 1972) è autore, attore e regista. I suoi testi sono legati ad un lavoro di ricerca sul campo e indagano nella memoria di eventi  legati. Tra i suoi spettacoli teatrali più conosciuti: Radio clandestina (2000), Scemo di guerra (2003), La pecora nera (2005), La fila indiana (2009), Pro patria (2011).

Ha inoltre realizzato il documentario Parole sante (2007) presentato al Festival internazionale del film di Roma nella sezione Extra. Contemporaneamente è uscito il suo primo disco, anch’esso intitolato Parole sante (2007), dove sono raccolte le canzoni presenti negli spettacoli. Come autore, regista e attore ha realizzato il film La pecora nera (2010) in concorso alla 67ª Mostra del cinema di Venezia. Tra le sue pubblicazioni si ricorda Storie di uno scemo di guerra (Einaudi 2005), La pecora nera (Einaudi 2006), Lotta di Classe (Einaudi 2009) e Io cammino in fila indiana (Einaudi 2011).

Ascanio Celestini interverrà alla Conferenza Mondiale di Science for Peace con un videomessaggio trasmesso nella sezione Rispetto della persona nel carcere italiano: testimonianze, venerdì 16 novembre, ore 16.00-17.00. 

Come nasce e si è sviluppato il suo interesse per il tema carcerario?

Sono interessato a questo tema perché da anni il dibattito attorno carcere è marginale o viene affrontato con un crescente e preoccupante giustizialismo che chiede pene sempre più severe, una trasformazione in reato di qualsiasi comportamento considerato moralmente scorretto e soprattutto viene vista come un’istituzione inevitabile e indispensabile.

Lei ha scritto: «I morti e gli ergastolani hanno una cosa in comune, non temono i processi. I morti perché non possono finire in galera. Gli ergastolani perché dalla galera non escono più»

Da anni mi occupo di istituzioni totali o alienanti. Ho incominciato dodici anni fa con i luoghi di prigionia nella seconda guerra mondiale e ho continuato con il manicomio, la fabbrica e i nuovi luoghi del lavoro del presente, dal supermercato al call center. Il personaggio narrante di  un  mio spettacolo, “Pro patria”, è un detenuto che sta scrivendo un discorso nel quale la brutalità del carcere viene descritta come una diretta conseguenza del modo in cui viene amministrata la giustizia e non come un mondo a parte che è inspiegabilmente degenerato.

Ritiene che oggi il carcere in Italia sia un’esperienza più punitiva o rieducativa?

Ritengo che i concetti di rieducazione e punizione siano due aspetti dello stesso rapporto paternalistico e infantilizzante di una istituzione che deve essere superata. Il responsabile di un reato non può essere schiacciato sul reato che ha commesso. Così come il paziente non è la propria malattia, ma molto di più, anche il colpevole non è solo la propria colpa. La finalità della giustizia dovrebbe essere la riconciliazione con la società. Un sistema che considera la giustizia una maniera per esercitare un monopolio della violenza è un sistema che colpisce principalmente la relazione democratica e il rispetto della vita umana. La recente sentenza sui fatti di Genova che ha portato in galera un gruppo di manifestanti ripescando tra gli articoli del codice fascista è indicatore della profonda crisi che sta attraversando la nostra democrazia.


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