È stato dimostrato che la proteina PXDN favorisce la progressione di diverse forme tumorali, ma il suo ruhlo nell’osteosarcoma non è ancora stato investigato: la ricerca di Sara Terreri
L’osteosarcoma è il tumore più frequente dell’osso e colpisce soprattutto i bambini e i giovani adulti. Fortunatamente, si tratta di una patologia rara, le cui cause sono ancora sconosciute. Nonostante i progressi compiuti finora nella diagnosi e nel trattamento di questo tumore, è necessario individuare nuovi bersagli terapeutici per i pazienti che manifestano recidive e metastasi.
Sara Terreri è ricercatrice presso l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, dove studia il ruolo di un gene che codifica per la proteina perossidasina (PXDN) in diverse linee cellulari di osteosarcoma, mediante tecniche di biologia molecolare. I livelli di questa proteina risultano alterati in diversi tumori e lo scopo della sua ricerca è valutare per la prima volta il ruolo del PXDN durante la differenziazione degli osteoblasti – le cellule che producono l’osso - e la progressione dell'osteosarcoma. Il progetto sarà sostenuto per il 2024 da una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi.
Sara, come nasce l'idea del vostro lavoro?
«L’osteosarcoma è un tumore maligno pediatrico raro, caratterizzato da un elevato tasso di recidiva e metastasi. Nonostante i molteplici progressi scientifici, le cause che determinano l’insorgenza di questo tumore non sono ancora chiare. Dati preliminari ottenuti su linee cellulari di osteosarcoma hanno evidenziato che il gene PXDN potrebbe avere un ruolo chiave nel regolare l’aggressività tumorale. Questo gene codifica per una proteina chiamata perossidasina. L’obiettivo del nostro studio sarà quello di regolare la quantità della proteina perossidasina in sistemi cellulari e di caratterizzare il ruolo di PXDN nell’osteosarcoma, allo scopo di identificare nuovi approcci terapeutici».
Perché avete scelto di orientarvi su questa linea di ricerca?
«Per cercare di individuare nuovi potenziali bersagli molecolari, cellulari e diagnostici che possano facilitare lo sviluppo di terapie innovative per la prevenzione o il trattamento dell'osteosarcoma».
Quali sono gli aspetti poco noti da approfondire?
«Nonostante negli anni siano stati fatti molti progressi nella comprensione delle alterazioni molecolari e cellulari dell’osteosarcoma, l’identificazione di nuovi bersagli terapeutici e diagnostici rimane urgente per i pazienti con metastasi e recidive. La comprensione dei processi alla base dell’insorgenza dell’osteosarcoma, potrebbe portare all’identificazione di nuove terapie applicabili anche ad altri tipi di tumori».
Come intendete portare avanti il vostro progetto quest’anno?
«L’obiettivo dello studio è quello di analizzare il ruolo della proteina PXDN nell’osteosarcoma, al fine di individuare nuove strategie terapeutiche e meccanismi d’azione per contrastare efficacemente il tumore. Inizialmente, ci concentreremo sull'analisi del ruolo di PXDN durante il processo di differenziamento degli osteoblasti e in diverse linee cellulari di osteosarcoma, basandoci sui dati preliminari raccolti. Utilizzeremo tecniche di biologia molecolare per regolare i livelli di espressione della proteina e approfondire la sua influenza sul rimodellamento osseo, mediante esperimenti di in cui metteremo in contatto di cellule osteosarcoma e cellule del tessuto osseo».
Quali prospettive apre, anche a lungo termine, per la conoscenza biomedica e la salute umana?
«Speriamo di individuare nuove opzioni diagnostiche e terapeutiche per sviluppare strategie innovative efficaci verso questo raro tumore pediatrico».
Sei mai stata all’estero per un’esperienza di ricerca?
«Sì, sono stata presso il laboratorio del Dr. Ramiro Garzon dell’Ohio State University a Columbus (USA), durante il mio dottorato di ricerca. È stata un’esperienza formativa che consiglierei a tutti. Ho avuto modo di interagire con scienziati di livello internazionale, conoscere nuovi colleghi e avere modo di apprendere nuove tecniche di laboratorio».
Cosa ti ha spinto ad andare?
«È stata la voglia di apprendere nuove metodologie e, soprattutto, la curiosità di conoscere l'ambiente lavorativo negli Stati Uniti. È stata un'esperienza bellissima che mi ha arricchito sia personalmente, sia professionalmente. Ho avuto l'opportunità di esplorare e acquisire nuove idee, nuovi punti di vista e nuovi approcci. Naturalmente ho sentito la lontananza dall'Italia: mi sono mancati gli affetti, le abitudini e il cibo del nostro Paese, ed è per questo che alla fine ho deciso di tornare e stabilirmi qui».
Hai sempre voluto fare ricerca o avevi in mente altro?
«In realtà la mia è stata una seconda scelta. Una volta finito il liceo, avrei voluto diventare una pediatra. L’amore per i bambini e la possibilità di poterli curare mi spingeva verso quella direzione. Il destino è stato d’aiuto nella scelta finale: più di un evento mi ha portato a scegliere di intraprendere la strada della ricerca e, facendo un bilancio, non posso proprio lamentarmi!»
Nella vita professionale ci sono alti e bassi: cosa vorresti incorniciare e cosa vorresti dimenticare?
«Sono una persona che tende a dimenticare, quindi dimentico facilemente gli aspetti negativi. Invece, i momenti da incorniciare sono stati tanti: la strada della ricerca è lunga e tortuosa e bisogna saper apprezzare le piccole o grandi soddisfazioni che si raccolgono durante il percorso. Una su tutte quando ho ricevuto la borsa di studio “EMBO Short term” (una prestigiosa borsa di studio per approfondire studi di biologia molecolare – NdR), che mi ha consentito di raggiungere il laboratorio del Dr. Ramiro Garzon all’Ohio State University di Columbus. Più recentemente, è stata altrettanto grande la soddisfazione di ricevere la borsa di studio dalla Fondazione Umberto Veronesi».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«La possibilità di poter fare cose nuove, apprendere nuovi modi di fare, aprire la mente a nuove idee ed essere libera di pensare».
E cosa invece eviteresti volentieri?
«Mi piacerebbe avere una maggiore tranquillità lavorativa: abolire la precarietà e l’ansia dovuta alla continua scadenza contrattuale che non consente di fare progetti di vita a lungo termine».
Percepisci fiducia intorno alla figura del ricercatore?
«Durante la mia esperienza, ho avuto l'opportunità di entrare in contatto con scienziati provenienti da altri paesi, e ho notato che in Italia la figura del ricercatore spesso non riceve la considerazione adeguata e il suo ruolo nella società non è sempre chiaro. Durante il periodo COVID, per esempio, si è pretesa una soluzione rapida ed efficiente senza considerare i tempi di sperimentazione necessari. La vita del ricercatore è un continuo dover dimostrare in tempi brevi».
Sara, che esperienze vorresti fare? Cosa vorresti vedere almeno una volta nella vita?
«Sono curiosa e volenterosa di apprendere. Mi piace tanto viaggiare per scoprire nuove culture, nuove tradizioni e lingue. Dopo ogni viaggio il mio animo si arricchisce di nuovi valori. Adoro inoltre fare gite fuori porta durante il week end o visitare musei, parchi, monumenti. Da appassionata di viaggi mi piacerebbe tanto poter vedere l’aurora boreale perché adoro i paesaggi unici».
Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?
«Vorrei ringraziarli. Il loro sostegno ci consente di lavorare e portare avanti i nostri studi. Decidere di sostenere la ricerca vuol dire contribuire al progresso scientifico e dare speranza ai malati in attesa di nuove soluzioni di cura».