Presentato il rapporto della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria sulle condizioni di salute delle persone in carcere. Sui pazienti oncologici mancano dati nazionali, ma un problema diffuso è la solitudine emotiva
Sovraffollamento, mancanza di personale, talvolta strutture fatiscenti e conseguente peggioramento delle condizioni di salute dei detenuti, a cominciare dall’aumento delle malattie psichiche e fisiche. Lo testimoniano i casi di violenza, le proteste e i suicidi, che al 10 dicembre sono già 86, e superano gli 80 totali del 2023 e il precedente triste record di 85 del 2022. È questo il quadro emerso dal XXV Convegno nazionale "Agorà Penitenziaria 2024" della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (SIMSPe).
NUMERI E MALATTIE NELLE CARCERI
Nelle carceri italiane ogni anno passano più di 100.000 persone e attualmente, secondo i dati del Ministero della Giustizia, al 30 ottobre 2024 in carcere ci sono 226.280 persone, per intenderci una popolazione analoga agli abitanti del Molise. Si tratta dunque di un numero molto elevato, difficile da gestire da vari punti di vista, salute in primis. «Sebbene i detenuti, come gli altri cittadini italiani, abbiano diritto alle prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale - spiega Luciano Lucania, direttore SIMSPe e specialista in chirurgia oncologica - di fatto la gestione sanitaria dei detenuti è complessa e frammentaria. Ciò dipende non solo dalle differenti politiche regionali (come avviene per la salute di tutti, visto che la sanità è gestita dalle regioni, ndr.); ma anche dall’efficienza delle singole ASL e dal coordinamento con lo specifico carcere. Tra le altre cause, il basso numero del personale operativo a tutti i livelli nelle strutture penitenziarie in proporzione a quello dei detenuti. C’è poi la questione dell’assistenza medica di base e quella specialistica non sempre ottimali per le difficoltà delle ASL a reperire medici disponibili per la particolare e specifica tipologia di attività. Infine, gioca a sfavore anche la frequenza di patologie psichiche e metaboliche tra detenuti. Numerosi sono infatti coloro che soffrono di malattie legate alla salute mentale e frequenti i casi di diabete e obesità, patologie determinate anche dallo scarso movimento e dall’alimentazione spesso inadeguata. Si conferma anche notevole la diffusione delle patologie infettive, così come i casi di tossicodipendenza e i danni correlati al fumo, frequentissimo nelle nostre carceri. Non esiste però un registro che certifichi in maniera precisa il numero dei malati e la frequenza delle diverse patologie. Tutto ciò che emerge è una constatazione oggettiva, sebbene esperienziale della realtà».
SUI TUMORI POCHI DATI
«La malattia oncologica - prosegue Lucania - colpisce ovviamente i detenuti, così come la popolazione generale ma, anche in questo caso, non sono disponibili dati. La perdurante assenza di una cartella informatizzata nazionale e inter-regionale (cioè che sia unica per tutto in periodo detentivo, indipendentemente dalla regione di provenienza e da quella/e di detenzione) mai come adesso costituisce un “vulnus". Per quanto riguarda lo screening, ciò che è emerge è la mancanza di un piano strategico d’insieme. Ogni singolo carcere opera, insomma, in maniera autonoma e spesso senza continuità. Vengono promossi screening, come ad esempio quello mammografico o la ricerca del sangue occulto nelle feci, purtroppo in modo episodico e saltuario, per mancanza di personale o scarsa ricettività territoriale. L’adesione da parte dei detenuti non è, inoltre, sempre ottimale. In genere è migliore dal punto di vista femminile perché le donne sono tendenzialmente più sensibili alla prevenzione e numericamente la loro presenza nei luoghi di detenzione è minore, quindi di più semplice gestione».
AMMALARSI DI TUMORE IN CARCERE
Diverso è invece il discorso circa la diagnosi e la somministrazione delle cure. «I detenuti - spiega Lucania - nella maggior parte dei casi non nascondono eventuali sintomi, anzi, cercano di evidenziarli, per ogni possibile beneficio, primo fra tutti quello di una diagnosi. Quindi, tranne i casi in cui non vengano riferiti, è difficile che si verifichino mancate diagnosi. Chi si sta sottoponendo alla cure in genere lamenta invece la difficoltà di far fronte agli effetti collaterali delle terapie senza la vicinanza dei propri cari, ma cure e follow up procedono in maniera corretta. Ciò che il detenuto percepisce è, spesso dunque, la solitudine emotiva di fronte alla malattia. E quel senso di mancanza di condivisione dei dolori fisici e psicologici indotti dalla detenzione, dalla preoccupazione per il cancro, dall’effetto dei farmaci e dai sintomi della malattia».
IL FUMO E LE TOSSICODIPENDENZE
«Importante per quanto concerne la prevenzione», prosegue Lucania, «è anche la lotta contro il fumo, concausa dello sviluppo di malattie respiratorie, cardiovascolari e alcuni tipi di cancro. Così come la prevenzione della tossicodipendenza. È emblematico che l’ultimo report sulle tossicodipendenze realizzato da Ministero della Salute e Conferenza Stato-Regioni abbia rilevato l’assenza di questo fenomeno, mentre in base alla nostra esperienza sul campo possiamo stimare che il 30% dei detenuti siano tossicodipendenti. La ragione, come spesso evidenziato dai media, sta nel fatto che le sostanze spesso riescono a sfuggire ai controlli a causa della penuria di personale che non riesce a gestire i numerosi e complessi aspetti della vita nei luoghi di detenzione. Imprescindibile è infine un lavoro sinergico tra il Sistema Sanitario Nazionale, l’Amministrazione Penitenziaria e Giudiziaria e il Welfare».
ANCORA TANTO DA FARE
Ciò che la Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria chiede al Ministero della Sanità è uno sforzo in più per la prevenzione primaria e secondaria, fondamentale nei luoghi di detenzione, dove sono più frequenti sia i contagi delle malattie infettive per la ristrettezza degli spazi, sia le patologie psichiche dettate dall’isolamento. Concretamente significa un miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie, l’esecuzione costante di screening per le patologie croniche e infettive, la creazione di una rete nazionale di reparti ospedalieri di medicina per detenuti, un potenziamento delle reti per la salute mentale e il riconoscimento della specificità della medicina penitenziaria.
Paola Scaccabarozzi
Giornalista professionista. Laureata in Lettere Moderne all'Università Statale di Milano, con specializzazione all'Università Cattolica in Materie Umanistiche, ha seguito corsi di giornalismo medico scientifico e giornalismo di inchiesta accreditati dall'Ordine Giornalisti della Lombardia. Ha scritto: Quando un figlio si ammala e, con Claudio Mencacci, Viaggio nella depressione, editi da Franco Angeli. Collabora con diverse testate nazionali ed estere.