Gli studi sul long-COVID sempre di più correlano i sintomi persistenti alle malattie infiammatorie. E anche l'esposizione all'inquinamento conta
Il long-COVID rappresenta una delle eredità più complesse e meno capite della pandemia causata dal virus SARS-CoV-2. La sindrome è caratterizzata da sintomi che durano per settimane o mesi dopo la risoluzione della fase acuta dell’infezione. E oltre che per la salute del paziente, ha implicazioni significative anche per la salute pubblica, soprattutto per legame con le malattie infiammatorie.
INQUINAMENTO E LONG-COVID
Una ricerca condotta in Catalogna (Spagna), nell'ambito del progetto COVICAT, ha analizzato il legame tra esposizione ambientale e durata del long-COVID. Lo studio, basato su un campione di oltre 2.800 adulti, ha rilevato che l’esposizione al particolato atmosferico (PM2.5 e PM10) è associata a un aumento del rischio di sintomi persistenti, soprattutto nelle persone che avevano già subito un'infezione acuta grave. Questo legame sembra essere lineare: maggiore è l’esposizione all’inquinamento atmosferico, maggiore è il rischio di sintomi duraturi.
Fattori ambientali come l’inquinamento atmosferico sembrano aggravare i sintomi del long-COVID, aumentando l’infiammazione cronica e i rischi di sintomi prolungati, in particolare nei pazienti già vulnerabili. In particolare, fattori ambientali come la mancanza di spazi verdi nelle vicinanze e un'esposizione prolungata a gas inquinanti sembrano correlarsi con i casi più severi e persistenti.
Sempre secondo lo studio, le più vulnerabili sono le donne, le persone con patologie preesistenti e quelle con livelli socioeconomici più bassi. Mentre il rischio di long-COVID è notevolmente ridotto nei soggetti vaccinati: solo il 15% di chi aveva ricevuto il vaccino ha sviluppato sintomi prolungati, rispetto al 46% dei non vaccinati.
Questi risultati evidenziano l'importanza di affrontare il long-COVID non solo attraverso cure mediche, ma anche con interventi di politica ambientale. Ridurre l’inquinamento atmosferico potrebbe rappresentare una strategia preventiva efficace, soprattutto nelle aree urbane densamente popolate. Ulteriori ricerche sono necessarie per comprendere meglio il ruolo di altri fattori ambientali, come l’esposizione al rumore e alla luce artificiale, che al momento sembrano avere un impatto minore ma non trascurabile.
CHE COS’È IL LONG-COVID?
Secondo il National Center for Health Statistics, il long-COVID colpisce circa il 17,6% degli adulti che ha contratto il virus.
I sintomi del long-COVID possono includere:
- affaticamento cronico: sensazione di stanchezza debilitante che non migliora con il riposo;
- nebbia mentale o “brain fog”: difficoltà di concentrazione, pensiero rallentato e problemi di memoria;
- dolore muscolare e articolare: sintomi simili a quelli delle malattie infiammatorie croniche;
- alterazioni del gusto e dell’olfatto: perdita o distorsione di queste capacità sensoriali;
- dispnea: difficoltà respiratoria persistente;
- problemi digestivi: nausea, diarrea e dolore addominali.
Nonostante l’eterogeneità dei sintomi, molti studi indicano che il long-COVID potrebbe derivare da risposte infiammatorie prolungate o disregolate che colpiscono più organi, tra cui polmoni, cervello e sistema cardiovascolare. Questa complessa interazione di fattori biologici rende il long-COVID una sindrome altamente variabile e difficile da trattare, con implicazioni significative per la salute pubblica. Inoltre, fattori esterni, come l’esposizione all’inquinamento atmosferico, possono aggravare i sintomi, influenzando la gravità e la durata del long-COVID.
IL LEGAME TRA I POLMONI E LA «NEBBIA MENTALE»
Uno studio condotto dall’Università dell’Iowa ha evidenziato una correlazione tra la ridotta capacità di scambio gassoso polmonare e i problemi cognitivi riscontrati nei pazienti con long-COVID, comunemente noti come “nebbia mentale” o “brain fog”. Utilizzando risonanze magnetiche avanzate e test cognitivi, i ricercatori hanno rilevato che i pazienti con compromissione della ventilazione polmonare mostravano una riduzione del volume della sostanza grigia e bianca nel cervello. Questo potrebbe contribuire a sintomi quali difficoltà di concentrazione, pensiero rallentato e problemi di memoria.
Il meccanismo alla base di questa relazione potrebbe coinvolgere un’infiammazione sistemica cronica che colpisce sia i polmoni sia il cervello. Inoltre, il ridotto scambio gassoso polmonare sembra alterare il flusso sanguigno cerebrale, con un possibile aumento compensatorio della perfusione per contrastare l’ossigenazione insufficiente. Tuttavia, questa risposta adattativa potrebbe anche rappresentare un indicatore di danni vascolari condivisi tra polmoni e cervello. I ricercatori ipotizzano inoltre che il danno al sistema respiratorio possa influenzare direttamente la salute cerebrale tramite meccanismi neuro-infiammatori.
DA CONSIDERARE NON SOLO IL DANNO POLMONARE
Questi risultati suggeriscono che le anomalie nello scambio gassoso potrebbero essere considerate come potenziali biomarcatori per identificare i pazienti a rischio di disfunzioni cognitive. Ma, come sottolinea il dottor Cristiano Carbonelli, responsabile dell’Unità Operativa Semplice di Medicina Interna presso l’Ospedale Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo (Foggia): «Un aspetto cruciale è la possibile invasione diretta del sistema nervoso centrale da parte del virus SARS-CoV-2 attraverso i nervi olfattivi, anche in assenza di un’infiammazione polmonare significativa. Questo scenario evidenzia l'importanza di considerare meccanismi patogenetici (ovvero possibili cause del long-COVID, ndr) indipendenti dalla gravità dell’infezione respiratoria». Non tutti i pazienti con long-COVID presentano una significativa compromissione polmonare. Oltre ai danni polmonari, è fondamentale considerare come processi infiammatori e neurodegenerativi possano spiegare i sintomi cognitivi del long-COVID. Il dottor Carbonelli distingue, inoltre, il quadro del brain fog dal deterioramento cognitivo spesso osservato nei pazienti sottoposti a terapia intensiva. «In questi pazienti, fattori quali ipossia prolungata, stress ossidativo e compromissione della barriera ematoencefalica giocano un ruolo predominante, delineando un complesso di cause multifattoriali distinte rispetto ai meccanismi del long-COVID».
SINTOMI COGNITIVI ANCHE CON UN COVID “LIEVE”
Gli effetti del long-COVID non si osservano solo nei sopravvissuti a forme gravi della malattia che hanno richiesto cure intensive. Sintomi prolungati sono stati riscontrati anche in pazienti con forme lievi di COVID-19 (che non hanno necessitato di supporto respiratorio o ricovero in terapia intensiva), in casi moderati-severi trattati in ospedale e persino in pazienti pediatrici e ambulatoriali. «Sebbene il legame tra ridotta capacità polmonare e disfunzioni cognitive sia importante, altre evidenze suggeriscono che la nebbia mentale derivi anche da meccanismi indipendenti dalla gravità dell’infezione respiratoria» spiega ancora Cristiano Carbonelli. Come già ricordato, infatti, SARS-CoV-2 può invadere direttamente il sistema nervoso centrale attraverso i nervi olfattivi, innescando una risposta neuro-infiammatoria cronica. Questo processo è stato osservato sia in modelli animali che umani, anche in pazienti con forme lievi di COVID-19. Inoltre, la persistenza di antigeni virali nel tessuto cerebrale e in alcune cellule del sangue può sostenere uno stato infiammatorio cronico, contribuendo ai sintomi cognitivi indipendentemente dal danno respiratorio acuto.
In sintesi, conclude il dottor Cristiano Carbonelli, è essenziale adottare un approccio multidisciplinare per affrontare la complessità del long-COVID, evitando di correlare esclusivamente i sintomi cognitivi alla severità dell’infezione respiratoria. Ulteriori studi saranno necessari per chiarire questi processi e sviluppare interventi terapeutici mirati.
IMPLICAZIONI PER LE MALATTIE INFIAMMATORIE
Il long-COVID sta cambiando il panorama delle malattie croniche. La risposta immunitaria prolungata in alcuni pazienti può portare a condizioni simili alle malattie autoimmuni o infiammatorie, come l’artrite reumatoide o la fibromialgia. Il monitoraggio e la gestione delle infiammazioni potrebbero essere centrali per trattare efficacemente questi pazienti. Per affrontare il long-COVID, dunque, è necessario un approccio multidisciplinare che includa:
- screening precoce di pazienti a rischio per sintomi persistenti;
- riduzione dell’esposizione all’inquinamento atmosferico;
- sviluppo di trattamenti mirati a migliorare la funzione polmonare e a mitigare i danni cognitivi;
- studio dei meccanismi infiammatori alla base del long-COVID per definire strategie preventive e terapeutiche.
Il long-COVID, con le sue connessioni con le malattie infiammatorie e croniche, richiede una risposta globale che includa diagnosi precoci, terapie mirate e strategie preventive integrate con politiche ambientali e sanitarie.