Il progetto Women Profile for Africa, in collaborazione con Fondazione Cesvi, punta ad avviare una campagna di screening per il tumore della cervice uterina
Prevenzione a tutto tondo. E a tutte le latitudini. Nasce per tutelare la salute femminile il progetto “Women Profile for Africa”, frutto della collaborazione tra Fondazione Veronesi e Fondazione Cesvi, attiva da trent’anni nella cooperazione internazionale. Obiettivo: portare il Congo all’introduzione di un programma di screening di massa per il tumore della cervice uterina, prima causa di morte per cancro tra le donne africane. «Siamo di fronte a un’esigenza primaria, medica e sociale», afferma Annamaria Parola, responsabile del progetto di Fondazione Veronesi. «Con un semplice Pap test una volta nella vita si potrebbe dimezzare la mortalità di questa neoplasia».
MISSIONE IN CONGO
Punto di forza dell’iniziativa - supervisionata da Mario Preti, direttore dell’unità di ginecologia preventiva all’Istituto Europeo di Oncologia e docente all’Università di Torino - è la partnership stretta tra due organizzazioni leader nel terzo settore. Fondazione Veronesi e Fondazione Cesvi - supportate anche dalla cooperazione belga, dall’Ong congolese Assicas e dall’Associazione patologi oltre frontiera (Apof), dal Ministero della Salute congolese e dall’Università Unikin di Kinshasa - hanno unito il know-how scientifico alla profonda conoscenza del territorio per fornire un contributo risolutivo a quella che in Africa rimane un’emergenza sanitaria. Nei primi giorni di ottobre una delegazione dei due enti è stata a Kinshasa per avviare la formazione del personale sanitario e gli esami diagnostici. Spiega Roberto Moretti, medico del servizio di promozione della salute dell’Asl diBergamo e consulente della Fondazione Cesvi: «Abbiamo dato il via uno studio scientifico per valutare quale possa essere il test diagnostico più adatto a quelle latitudini. Oltre al Pap test, si sta testando anche la sensibilità di altre due procedure, ormai abbandonate in Occidente: l’ispezione visiva del collo dell’utero con l’acido acetico e con il lugol, in grado di far sospettare una diagnosi a occhio nudo. Si intende procedere anche con gli esami delle urine: il test è al momento caro, ma in prospettiva potrebbe diventare la prima scelta per scovare in tempo utile le cellule neoplastiche».
VERSO UNO SCREENING?
I casi sospetti saranno approfonditi attraverso una colposcopia e una biopsia. Individuato l’approccio più sicuro, i due enti formuleranno una proposta al Ministero della Salute locale e all’Organizzazione Mondiale della Sanità - già partner del progetto - per avviare una campagna di prevenzione secondaria del tumore del collo dell’utero a partire dal 2017: prima nella sola Kinshasa (15 milioni di abitanti) e poi anche nelle aree periferiche. Per fare in modo che il progetto vada a compimento, sarà però necessario il contributo di tutti: aziende e piccoli donatori.
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).