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Serena Zoli
pubblicato il 23-09-2016

«Così la rete può entrare nel nostro cervello»



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Alberto Sangiovanni Vincentelli è intervenuto a «The Future of Science» per spiegare l'ultima frontiera della connettività: lo «human intranet»

«Così la rete può entrare nel nostro cervello»

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Internet non si ferma mai. Allarga sempre più la sua estensione, «occupa» sempre di più le persone, penetra ovunque. Non c’è oggetto o punto al mondo che non sia connesso alla rete o raggiungibile grazie a internet. Non ci si può perdere nemmeno in mezzo al Pacifico, via satellite la Rete sa come «pescarci» anche lì, è stato raccontato alla Conferenza mondiale The Future of Science. Tema del convegno, organizzato a Venezia dalle Fondazioni Umberto Veronesi, Silvio Tronchetti Provera e Giorgio Cini, la rivoluzione digitale.

 

IL MATRIMONIO TRA BIOLOGICO E DIGITALE

Internet oggi non è soltanto fuori di noi. La sua trasposizione all'interno del nostro corpo è oggi nota anche come «human intranet». Internet può entrare dentro di noi, precisamente dentro la scatola cranica con un minuscolo chip. Il futuro? No, il presente. Già fatto. A spiegare di cosa si tratta è stato Alberto Sangiovanni-Vincentelli, docente di ingegneria elettronica e scienze computazionali all’Università di California a Berkeley. Il suo intervento è partito dalle premesse del matrimonio biologico-digitale. Già da tempo ci sono i braccialetti, per la corsa per esempio, che controllano il cuore e altri valori base. C’è il dispositivo usa e getta da applicare sul cuore e che invia i dati all’ospedale oppure a un altro terminale prescelto.

«Quindi si possono raccogliere tutte le informazioni possibili del corpo. Ma ora c’è il chip che va dentro. E dentro la parte più delicata del nostro organismo e della nostra identità, il cervello», ha spiegato il docente a una platea composta da oltre quattrocento persone. Il dispositivo è stato introdotto già da diversi anni nel cervello di persone con problemi gravi - e non rispondenti ai rimedi farmacologici - di depressione, Parkinson, schizofrenia. I risultati? «Buoni, anche se non si sa come funziona. Del resto si sa da quasi cent’anni che le scosse elettriche sul cervello possono essere efficaci: da quando è stato inventato negli anni trenta l’elettroshock. Le correnti che si usano col chip interno sono bassissime. Inoltre si impiega il dispositivo anche per osservare il cervello, capire come agisce». Addirittura a Berkeley c’è già una start-up, creata da due studenti di cui uno italiano, che produce i chip e li commercia. Come terapia, l'approccio è noto col nome di stimolazione profonda del cervello.

 

GLI ALTRI ESPERIMENTI IN CORSO

Altre applicazioni pensabili porteranno a collegare un arto artificiale direttamente alle onde elettromagntiche cerebrali: «La persona potrà così muovere la protesi senza accorgersene, come con un arto naturale». Ci sono poi studi che stanno testando come la pelle artificiale, collegata anch’essa al chip, possa dare la sensazione di caldo o freddo come una vera pelle umana. Fin qui le possibilità positive. C’è un altro esperimento riuscito sì, ma che inquieta: alcune scimmie a cui il chip è stato inserito nella testa sono state «addestrate» ad alzare un braccio da un computer in Massachussets e lo hanno fatto. Intranet, a conti fatti, si era impadronito del loro volere.

 

MA CI SONO ANCHE LE INSIDIE

Nella relazione Di Sangiovanni-Vincentelli si sono imposte parole come difesa della privacy e sicurezza, riprese anche in altri interventi sui big-data. Ma accanto a risultati strepitosi, spuntano da ogni parte i rischi. In particolare per l’intranet dell’uomo i potenziali segnalati sono i seguenti: il dovere bucare la testa, il possibile rigetto, l’eventualità che il chip possa sviluppare troppo calore e che le onde elettromagnetiche del cervello possano essere carpite da altri (a quando il pensiero?). Infine, come illustrato dall'esperimento condotto sulle scimmie, addio sicurezza: c’è chi può impadronirsi del chip e, dunque, della persona.

Un rischio che il l’esperto ha segnalato anche relativamente all’industria automobile («L’auto che marcia senza conducente può essere una grande innovazione, ma quando si è su non si può far nulla per cambiare la sua rotta»), con un risvolto anche per il terrorismo e la sicurezza: «Pensate a terroristi che via internet si impadroniscono di una di queste auto con una personalità a bordo che a loro interessa. Oppure che piazzano una quindicina di queste auto intorno a Los Angeles, le caricano di esplosivo e le telecomandano verso il centro». Cosa potrebbe accadere? Dai big-data, per adesso, nessuna risposta.

Serena Zoli
Serena Zoli

Giornalista professionista, per 30 anni al Corriere della Sera, autrice del libro “E liberaci dal male oscuro - Che cos’è la depressione e come se ne esce”.


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