Cosa può nascere dall'incontro fra la robotica e il mondo vegetale? Un plantoide. A presentarlo Barbara Mazzolai, ospite di «Science for Peace and Health»
Il regno vegetale come espressione della parte più silente, immobile e inerte del pianeta. Ma è davvero così? Ce lo domanda Barbara Mazzolai nel suo libro «La natura geniale» (Longanesi, 192 pagine, 18 euro).
La risposta naturalmente è no: le piante non sono inerti, ma hanno proprietà e caratteristiche straordinarie che possono essere prese a modello per trovare nuove soluzioni ai grandi problemi dell’uomo e dell’ambiente. Come? Attraverso la tecnologia e l’incontro sorprendente fra i robot e il mondo verde.
Il suo lavoro di ricerca è l’espressione di una felice convergenza fra biologia e robotica. Ad un profano sembra un ossimoro: come fa un robot a essere bio?
«Il mondo biologico è una grande fonte di ispirazione, da sempre, per la scienza», afferma la scienziata, che interverrà a «Science for Peace and Health» l'11 novembre. Oggi guardiamo alla natura anche per progettare nuove macchine, nuovi robot, che poi tornano alle scienze biologiche nelle loro applicazioni, diventano nuovi strumenti utili anche in ambito biomedico, in chirurgia, diagnostica o riabilitazione. Questo ambito di studio che unisce la bioingegneria e la robotica è la biorobotica; e io mi occupo, in particolare, di robotica bio-ispirata».
Di cosa si tratta?
«Studio gli esseri viventi, soprattutto le piante e gli invertebrati (Mazzolai nasce come biologa marina, ndr) per progettare robot nuovi, non più composti soltanto da materiali inerti come i metalli, ma robot che si adattano, che imitano le proprietà degli esseri viventi. Il mondo della robotica bioispirata è molto ampio. Nasce con lo studio dell’uomo e attraversa tutti i regni in cui classifichiamo gli esseri viventi. Dagli umanoidi, i robot che siamo stati abituati a conoscere dalla fantascienza, agli animali, alle piante, sino ai batteri che si studiano per mimare la loro capacità di muoversi nel corpo. Tutti gli esseri viventi sono osservati per trovare corrispettivi tecnologici con applicazioni potenzialmente utili».
Ci racconti cosa è la sua «creatura» più nota: il plantoide.
«È un modello che abbiamo proposto alla comunità scientifica: il primo robot ispirato alle radici delle piante. Abbiamo studiato alcune proprietà delle piante estremamente interessanti: strutture flessibili, non rigide, strategie di movimento e di comunicazione basate sulla crescita e sull’uso di risorse minime, presenti nell’ambiente in cui vivono. La pianta si muove attraverso la crescita, per aggiunta di nuove cellule, nuovo materiale; la loro parte viva è quella più lenta, più sottile, quella che riesce a fare l’impossibile, ovvero muoversi anche nel terreno più duro, in contesti di alta pressione e alto attrito, senza spaccarsi. Tutt’altro che statiche e inerti, le piante si adattano all’ambiente che le circonda e sfruttano al massimo dell’efficacia le risorse che hanno a disposizione. Si muovono continuamente e lentamente (la velocità non sarebbe conveniente in un ambiente rigido come il suolo, ndr)».
E a noi umani cosa potrebbe servire mimare questa lenta e silenziosa impresa titanica?
«A progettare strumenti autonomi per la conoscenza di ambienti di per sé difficili o impossibili da esplorare. Per esempio per lo studio dell’ambiente e del suolo, partendo dalla necessità di avere strumenti di monitoraggio e di esplorazione del terreno. O per conoscerne la composizione, per misurare la presenza di pesticidi o altre sostanze tossiche. Il mio sogno è sempre stato trovare soluzioni per studiare meglio la relazione fra l’ambiente, l’inquinamento, il cibo e l’acqua di cui ci nutriamo. Ma poi, come accade nella scienza, la collaborazione con altre discipline ti porta a strade inattese e sbocchi che non immaginavi».
Per esempio?
«Nello spazio. Uno dei primi finanziamenti dei nostri studi è arrivato dall’ESA, l’Agenzia Spaziale Europea, che ha visto nei plantoidi una nuova opportunità per esplorare il suolo su altri pianeti. Oppure all’interno del corpo umano. “Questo sarebbe un endoscopio perfetto”, osservò una volta un amico medico. Era un punto di vista diverso dal nostro, che ha visto nella tecnologia una soluzione ai problemi che incontra quotidianamente. In questo caso, uno strumento di esplorazione per crescere e muoversi nel corpo umano senza produrre attrito, arrivando dove nessuna sonda diagnostica riesce a spingersi senza fare danni. Questo è il bello della ricerca di base che incontra le scienze applicate».
Come immagina il futuro della biorobotica?
«Crescerà. Questo mi immagino e questo auspico. La biorobotica vive delle relazioni profonde con altre discipline, non solo quelle tecnologiche, ma quelle mediche, biologiche, economiche e anche con la filosofia, l’etica. Osservando il mondo dei viventi possiamo progettare e costruire nuove applicazioni tecnologiche e, al tempo stesso, acquisiamo nuove conoscenze sul funzionamento dei sistemi biologici. È un ambito di studio nuovo che - per inciso - attrae molte studentesse e ricercatrici rispetto a branche più tradizionali dell’ingegneria in cui la componente maschile prevale nettamente. Come mai? Tante le ragioni possibili, compreso il fatto che la bioingegneria permette di lavorare su applicazioni mediche o biologiche che si propongono di migliorare la vita delle persone e risolvere problemi ecologici, un aspetto pratico che spesso alle ragazze interessa particolarmente. Forse anche perché è una disciplina nuova e dal carattere fortemente collaborativo. Si lavora tutti insieme alla ricerca di soluzioni nuove e sostenibili».
Donatella Barus
Giornalista professionista, dirige dal 2014 il Magazine della Fondazione Umberto Veronesi. E’ laureata in Scienze della Comunicazione, ha un Master in comunicazione. Dal 2003 al 2010 ha lavorato alla realizzazione e redazione di Sportello cancro (Corriere della Sera e Fondazione Veronesi). Ha scritto insieme a Roberto Boffi il manuale “Spegnila!” (BUR Rizzoli), dedicato a chi vuole smettere di fumare.