Secondo gli esperti esiste una predisposizione in chi sviluppa la complicanza dopo la mastectomia. Individuati alcuni geni potenzialmente coinvolti, ma lo screening di massa è ancora lontano: servono più dati
Secondo gli esperti esiste una predisposizione alla complicanza dopo la mastectomia. Individuati alcuni geni potenzialmente coinvolti, ma lo screening è ancora lontano: servono più dati
Potrebbe essere una sensibilità genetica a fare da spartiacque tra le donne che, dopo l’intervento per tumore al seno, sviluppano linfedema e quelle, più fortunate, che vivono libere da complicanze. Seppure la chirurgia oncologica abbia fatto notevoli passi avanti, nella direzione preferenziale di quella conservativa quando possibile, ancora una donna su quattro convive con il tipico «braccio gonfio» dopo la malattia. Colpa non solo dell’asportazione dei linfonodi ascellari ma anche, sembrerebbe, di difetti genetici che in alcune donne aumentano la probabilità di sviluppare linfedema.
DALLA FORMA FAMIGLIARE - E’ lo studio del linfedema primario, ereditabile per famigliarità, ad aver offerto ai ricercatori le basi per questa ipotesi. Raro e con esordio precoce, è caratterizzato da un ristagno di linfa negli arti, del tutto analogo a ciò che si verifica con il linfedema secondario, ovvero la forma post-traumatica o post-chirurgica. La somiglianza tra le due forme sembra essere anche genetica: alcune mutazioni che innescano il linfedema ereditario, di cui solo in parte già note, potrebbero essere responsabili di un maggiore rischio di sviluppare la forma secondaria nelle pazienti con tumore al seno. Dalla ricerca alcune conferme, tra cui uno studio dell’Università di Pittsburgh all’interno del Breast Cancer Program americano, pubblicato su Clinical Cancer Research: sequenziando il DNA di 188 donne diagnosticate con tumore al seno, i ricercatori hanno cercato le mutazioni nei geni noti per il linfedema primario, individuando così un difetto nel gene di una proteina, la connessina 47. Studi simili lasciano ipotizzare un ruolo anche di altri geni, come un recettore per il fattore di crescita vasoteliale (VEGFR3). Secondo gli esperti, anomalie nella funzionalità dei vasi linfatici e sanguigni sarebbero la causa di fragilità nel sistema linfatico in alcuni individui, predisponendoli ad edema.
PREVENZIONE CHIRURGICA- Riconoscere le pazienti più a rischio di linfedema può servire a prevenire il linfedema già in sala operatoria, quando si rimuove il tessuto tumorale. Sandro Michelini, presidente della Società Europea di Linfologia, ci spiega in che modo: «Quando si rimuove il pacchetto linfonodale ascellare, dopo l’analisi del linfonodo sentinella, è possibile intervenire subito con delle anastomosi, cioè ricreando delle vie di flusso per evitare un successivo ristagno di linfa. Oppure si può trapiantare nello scavo ascellare dei linfonodi prelevati dal torace della stessa paziente. In questo modo la paziente affronta solo un intervento chirurgico ed evita la complicanza linfatica». Una tecnica chirugica già ideata ma non ancora applicata di routine. Perchè? «A livello mondiale sono pochi gli esperti preparati ad eseguire questo intervento complesso. In Italia, ha un’esperienza consolidata il team dell’Ospedale S. Martino di Genova e qualche altro centro ha iniziato ad applicarla. Ma siamo ancora lontani dall’eseguirla sul territorio».
IL TEST GENETICO – Prima di una diffusione della microchirurgia dei linfatici, si deve arrivare a un test che individui le pazienti più a rischio. Seppure i risultati raccolti finora siano promettenti, uno screening di massa è ancora al livello della potenzialità. «Servono maggiori dati statistici. Questi lavori sperimentali sono i primi e ancora troppo modesti: non sappiamo ancora quale sia la mutazione o le mutazioni associabili a linfedema secondario con assoluta certezza».