Nelle forme precoci l’utilizzo di T-DM1 è efficace nel ridurre il rischio di recidiva migliorando enormemente la qualità di vita rispetto alla chemioterapia
Nel tumore al seno HER2-positivo in stadio iniziale, l’utilizzo di un anticorpo coniugato (TDM-1) come terapia adiuvante è risultato altamente efficace nel prevenire le recidive -al pari della chemioterapia- migliorando però in maniera importante la qualità di vita delle pazienti. Un risultato che indica chiaramente come questo tipo di approccio rappresenti una valida alternativa alla chemioterapia. I risultati dello studio ATEMPT -coordinato dal dottor Paolo Tarantino, oncologo presso il Dana–Farber/Harvard Cancer Center di Boston- sono stati pubblicati dalla rivista Journal of Clinical Oncology.
I TUMORI AL SENO HER2-POSITIVI
I tumori al seno non sono tutti uguali. Una delle principali caratteristiche che influenza la scelta della terapia è la presenza di specifici recettori sulla superficie delle cellule tumorali utilizzati come bersagli per i trattamenti. Uno di questi recettori è HER2. Quando è presente è possibile impiegare farmaci altamente efficaci che sfruttano questa peculiarità per colpire selettivamente le cellule tumorali risparmiando quelle sane. E’ questo il caso degli anticorpi coniugati, farmaci composti da un anticorpo in grado di riconoscere il recettore HER2 a cui vengono coniugate molecole di chemioterapico in grado di bloccare la crescita del tumore. «In questi ultimi anni -spiega Tarantino-, complice il miglioramento nelle tecniche di assemblaggio di questi composti, l’utilizzo degli anticorpi coniugati si è sempre più diffuso in virtù dei grandi risultati ottenuti, soprattutto nella malattia metastatica».
DALLA CHEMIOTERAPIA AGLI ANTICORPI CONIUGATI
Ma proprio per la straordinaria efficacia (lo abbiamo raccontato qui), l’utilizzo degli anticorpi coniugati è in corso di valutazione da tempo anche nelle forme più precoci di malattia. Ed è questo il caso dello studio da poco pubblicato che ha coinvolto donne con tumore al seno HER2-positivo al primo stadio, una tipologia di malattia che riguarda circa il 10% di tutte le nuove diagnosi di neoplasia della mammella. «Quando un tumore al seno viene diagnosticato in fase iniziale -prosegue Tarantino-, dopo la rimozione chirurgica è spesso necessario sottoporre la donna ad una terapia adiuvante per ridurre al minimo il rischio di recidiva. Nel caso dei tumori HER2-positivi, ciò viene tradizionalmente fatto attraverso la somministrazione della chemioterapia e di una terapia biologica. Nello studio pubblicato sul Journal of Clinical Oncology abbiamo voluto testare l’efficacia dell’anticorpo coniugato trastuzumab emtansine (T-DM1) quale alternativa efficace alla combinazione di chemioterapia e terapia biologica in un'ottica sia di miglioramento della qualità di vita sia di probabilità di recidiva».
I RISULTATI DELLO STUDIO
Il trial clinico ha coinvolto 497 pazienti suddivisi in due gruppi: il primo ha ricevuto per un anno la terapia standard a base di chemioterapia e terapia biologica con trastuzumab; il secondo è stato sottoposto -sempre per un anno- a cicli di terapia adiuvante con l’anticorpo coniugato T-DM1. Scopo dello studio era la valutazione del rischio di recidiva con il T-DM1 e la comparazione degli effetti avversi. Dalle analisi è emerso che il 97% delle pazienti trattate con T-DM1 era in vita e libero da malattia a 5 anni dalla diagnosi, una percentuale molto simile a quella ottenuta con la combinazione di chemioterapia e trastuzumab. La percentuale di effetti collaterali è risultata simile, ma la qualità degli stessi ha mostrato notevoli differenze: il T-DM1 ha dimostrato per lo più anomalie laboratoristiche, mentre la chemioterapia ha condotto a tossicità più evitenti. Ciò si traduce in un rilevante impatto delle terapie sulla qualità di vita: le pazienti trattate con T-DM1 hanno riportato infatti una migliore qualità tradottasi in una maggiore produttività lavorativa e in una riduzione degli episodi di neuropatia e di perdita di capelli (alopecia da chemioterapia).
CURE SEMPRE MENO INVASIVE
«Lo studio -spiega Tarantino- indica chiaramente un beneficio nell’utilizzo di T-DM1 in termini di preservazione della qualità di vita senza incidere negativamente sul rischio di recidiva. Un dato importante se si considera che con il passare del tempo, grazie alla possibilità di effettuare diagnosi sempre più precoci, la platea di donne con tumore al seno HER2-positivo in stadio iniziale è destinata ad aumentare. Poter fornire loro una terapia efficace e meno impattante sulla qualità di vita è sicuramente un aspetto importante». Quanto ottenuto però è solo l’ultimo tassello di un percorso iniziato già da diversi anni per questo genere di neoplasia: quando diagnosticati in fase precoce, i tumoriHER2-positivi non sempre hanno un grado di aggressività tale da richiedere alte dosi di chemioterapia, come dimostrato da studi del professor Giuseppe Curigliano dell'Istituto Europeo di Oncologia, Università di Milano già a partire dal 2009. Tale evidenza ha dato vita ad alcuni studi sulla "de-escalation" -condotti al Dana-Farber Cancer Institute di Boston dalla professoressa Sara Tolaney, con partecipazione proprio di Paolo Tarantino- che hanno dimostrato come una chemioterapia più leggera porta, in termini di efficacia, agli stessi risultati della dose standard.
L’IMPORTANZA DEL PROFILO MOLECOLARE
Lo studio da poco pubblicato aggiunge però un ulteriore tassello di conoscenza. I tumori HER2-positivi in stadio iniziale non sono tutti uguali. Il rischio di recidiva può variare in maniera importante in base alle caratteristiche molecolari del tumore. Da tempo per prevedere questo rischio è in fase di sperimentazione il test HER2DX, un tool molto simile ad OncotypeDX usato per evitare la chemioterapia adiuvante in alcune forme tumorali. L'esame -messo a punto a partire da studi di Aleix Prat, professore di Medicina Oncologica presso l’Università di Barcellona e primario del reparto di Oncologia Medica dell’Hospital Clinic di Barcellona- ha come obiettivo la valutazione dell'espressione di 27 geni del tumore in grado di prevedere l'evoluzione della malattia. «Il test -conclude Tarantino- consente di identificare un piccolo sottogruppo di pazienti (pari al 6%) con un maggior rischio di recidiva. Per queste donne stiamo ora cercando di sviluppare strategie terapeutiche dedicate, nell’ottica di una terapia sartoriale, che associ a ciascuna paziente l’intensità di trattamento necessaria per evitare le recidive, con la massima preservazione della qualità di vita. Si tratta di un futuro che sta rapidamente diventando il presente, grazie alla collaborazione accademica internazionale, la partnership con molteplici sponsor, ed il coraggio di migliaia di pazienti che partecipano ogni anno a studi clinici e permettono il rapido avanzamento delle conoscenze oncologiche».
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Daniele Banfi
Giornalista professionista del Magazine di Fondazione Umberto Veronesi dal 2011. Laureato in Biologia presso l'Università Bicocca di Milano - con specializzazione in Genetica conseguita presso l'Università Diderot di Parigi - ha un master in Comunicazione della Scienza ottenuto presso l'Università La Sapienza di Roma. In questi anni ha seguito i principali congressi mondiali di medicina (ASCO, ESMO, EASL, AASLD, CROI, ESC, ADA, EASD, EHA). Tra le tante tematiche approfondite ha raccontato l’avvento dell’immunoterapia quale nuova modalità per la cura del cancro, la nascita dei nuovi antivirali contro il virus dell’epatite C, la rivoluzione dei trattamenti per l’ictus tramite la chirurgia endovascolare e la nascita delle nuove terapie a lunga durata d’azione per HIV. Dal 2020 ha inoltre contribuito al racconto della pandemia Covid-19 approfondendo in particolare l'iter che ha portato allo sviluppo dei vaccini a mRNA. Collabora con diverse testate nazionali.