Sostenuta dal progetto Gold for Kids, Diana Corallo sta realizzando un modello in vivo di neuroblastoma per studiare l’impatto di particolari alterazioni genetiche
Il neuroblastoma è un tumore pediatrico che ha origine durante lo sviluppo embrionale, ed è responsabile di circa il 15 per cento delle morti fra i pazienti oncologici pediatrici. Si sviluppa a livello del sistema nervoso periferico simpatico e in particolare dalle cellule embrionali delle creste neurali, una delle strutture embrionali da cui si origina il sistema nervoso periferico.
Come in molti altri tumori pediatrici, il neuroblastoma è caratterizzato da una grande eterogeneità genetica e biologica. Nei casi in cui questo tumore presenti un aumento nel numero di copie del gene MYCN (clinicamente classificati come neuroblastoma ad alto rischio), è stato frequentemente osservato anche un aumento nelle copie e nei livelli di espressione del gene LIN28B: entrambi questi geni sono normalmente coinvolti nello sviluppo delle creste neurali, che risulta quindi alterato.
All’Istituto di Ricerca Pediatrica Città della Speranza di Padova, la biotecnologa trentenne Diana Corallo sta mettendo a punto un modello per studiare gli effetti di queste modificazioni genetiche, grazie al progetto Gold for Kids della Fondazione Umberto Veronesi.
Diana, in che modo il tuo progetto farà chiarezza sugli eventi alla base del neuroblastoma?
«Con il mio lavoro punto a sviluppare un adeguato sistema in vivo che permetterà di ricapitolare lo sviluppo di questa malattia a partire dalla sua origine embrionale. A questo scopo verrà utilizzato un modello basato sul pesce zebra, un piccolo pesce d'acqua dolce comunemente utilizzato per gli studi di biologia dello sviluppo e di tumorigenesi, in cui riprodurre in maniera stabile l’aumento nei livelli di LIN28B e studiare così il comportamento delle NCC in risposta a questo fenomeno, sugli embrioni e sulle larve.
Quali prospettive offrirà questo modello per la salute umana?
«Dal momento che sia LIN28B che MYCN giocano un ruolo critico nello sviluppo del PSNS, sia in condizioni normali che patologiche, il valore aggiunto nell’utilizzare questo modello risiede nella possibilità di testare in vivo una serie di composti chimici in grado di colpire le prime fasi di formazione del neuroblastoma, al fine di migliorare il tasso di sopravvivenza dei pazienti colpiti da questo tumore».
Diana, tu non sei ancora mai stata all’estero per ricerca: ti piacerebbe andarci?
«È uno dei miei obiettivi: mi piacerebbe andare in un laboratorio dove io possa imparare nuove metodologie e conoscere persone con cui condividere conoscenze scientifiche e tecniche sperimentali all’avanguardia. Sicuramente tra i laboratori che si occupano di neuroblastoma su zebrafish, quelli a Boston o al Children's Cancer Research Institute di Vienna suscitano in me un forte interesse».
Hai un momento della tua vita professionale in particolare che vorresti incorniciare?
«Di sicuro il momento in cui abbiamo sottomesso ad un editore il primo manoscritto scientifico in cui ero coinvolta come ricercatore principale del progetto».
Come ti vedi fra dieci anni?
«Insegnante all’Università di Padova e responsabile di un laboratorio di ricerca».
Cosa ti piace di più della ricerca?
«Il fatto che mi abbia insegnato, anche nella vita privata, a non intestardirmi su uno stesso concetto e a cercare di verificare un’ipotesi per tentativi ed errori. E poi il fatto che si tratti di un universo in continua espansione».
E cosa invece eviteresti volentieri?
«Eviterei di certo gli ambienti mediocri in cui conta di più il livello di pubblicazione del ricercatore che il suo argomento di ricerca, o gli ambienti in cui le persone più meritevoli non vengono premiate adeguatamente».
Cosa ne pensi dei complottisti e delle persone contrarie alla scienza per motivi ideologici?
«Penso che in Italia si stiano svalutando sempre di più il concetto di conoscenza e la figura di individuo competente e che molte persone confondano la caduta di questi concetti con l’idea del confronto democratico. Il potersi esprimere liberamente e democraticamente su un dato tema non fa di una persona un’esperta del settore. Quindi ritengo che il motivo alla base del serpeggiante sentimento antiscientifico sia dovuto all’oggettiva mancanza di conoscenze di chi non lavora sull’ambito di discussione o non se ne intende. Se si tornasse a dare il giusto peso alle opinioni di chi ha dedicato tempo e studio su un certo argomento, mantenendosi costantemente aggiornato, e a quelle di coloro che invece si occupano (giustamente) di altre materie, probabilmente il nostro lavoro non sarebbe soggetto a legislazioni vincolanti e ostacolanti e arriveremmo a ottenere uno sviluppo scientifico più rapido e costante».
Cosa fai nel tempo libero?
«Ascolto musica quasi costantemente, leggo molti libri, cerco di stare in ambienti naturali o artistici ad ampio respiro. Se non avessi fatto la ricercatrice, molto probabilmente avrei lavorato a stretto contatto con la natura».
Quando è stata l’ultima volta che ti sei commosso?
«Pochi giorni fa, guardando la cupola affrescata del Brunelleschi al duomo di Firenze».
Che figure ti ha ispirato nella tua vita personale e professionale?
«Per quanto riguarda la vita professionale, sicuramente le figure che mi hanno ispirata e per le quali nutro una forte stima sono Margherita Hack, Rita Levi Montalcini e Kary Mullis. Dal punto di vista personale la mia famiglia è una grande fonte di ispirazione».
Al di là dei contenuti scientifici, qual è il motivo profondo che ti spinge a fare ricerca e dà significato alle tue giornate lavorative?
«La mia necessità continua di affrontare nuove sfide e nuovi concetti. La conoscenza e la libertà che ne deriva sono una fonte di energia fondamentale».