A 34 anni, Sabrina ha scoperto di avere un tumore al seno triplo negativo. Poi è stata la volta di Covid-19. «Un ostacolo in più, ma ho già iniziato a riprendermi la vita»
«Entrare e uscire dagli ospedali per curare un tumore al seno nel mezzo di una pandemia è come vivere un incubo tenendo gli occhi aperti. Però sono qui a raccontarlo. E di questo sono assolutamente grata». Sabrina ha 35 anni. Ma non ne aveva nemmeno 34 quando, con un eccesso di zelo non comune tra le sue coetanee, decise di sottoporsi a un’ecografia. Palpandosi, sotto la doccia, aveva percepito qualcosa di diverso nel suo corpo. Sotto la cute del seno destro, c'era una «formazione» nuova. Di quelle che i medici invitano a non sottovalutare mai, nemmeno quando il corpo sembra girare alla massima potenza.
Un caso da elevare a sistema, il suo: l’esempio di quella che dovrebbe sempre essere l’attenzione al proprio corpo. Diagnosi precoce, dunque. Non per questo però rassicurante. Il primo capitolo di questa storia risale al 19 novembre 2019, quando Sabrina scopre di avere un tumore al seno triplo negativo: la forma più aggressiva della malattia oncologica maggiormente diffusa tra le donne. Giusto il tempo di iniziare le cure, prima che Covid-19 scegliesse l’Italia per farsi largo in Europa.
Sabrina, cosa ricorda di quei giorni?
«Una sensazione di grande spaesamento. Non è semplice rialzarsi da una botta simile, alla mia età. Seguivo l’evoluzione dei contagi, soprattutto in Cina. Ma nessuno lasciava intendere un imminente peggioramento della situazione in Italia. Vivo a Taranto, nella cui provincia fu registrato il primo caso di Covid-19 in Puglia. Ricordo che stavo per sottopormi all'ultima infusione di chemioterapia. I miei globuli bianchi erano piuttosto bassi ed ero in terapia con i fattori di crescita per stimolarne la produzione».
Quale fu il primo pensiero, una volta capito che la pandemia era a due passi da casa?
«Avevo davanti un percorso lungo: fatto di altre 13 sedute di chemioterapia, necessaria per presentarmi al meglio all’intervento chirurgico. Ero consapevole della mia fragilità, ma la paura subentrò quando l’ospedale in cui ero in cura fu trasformato nel centro di riferimento per la cura dei malati di Covid-19. Fu un ulteriore ostacolo, nel solco di un percorso già durissimo. Essere trasferiti in un’altra sede fu destabilizzante, per il cambiamento che determinò nelle abitudini con i medici e con gli infermieri. Dopo quella seduta di chemioterapia, nulla fu più come prima».
In che senso?
«Ho dovuto completare da sola il ciclo di cure neoadiuvanti, leggendo la paura sul volto del personale sanitario. L’aria era tesa: in quel momento capii subito che nemmeno le persone a cui mi ero affidata erano nelle condizioni di supportarmi. Il timore dei contagi nelle strutture sanitarie, d’altra parte, era palpabile. Tre settimane dopo, nella clinica in cui ero in cura, scoppiò un focolaio. Fortunatamente, non fui contagiata. Fuori, però, era già cambiato tutto. Avrei avuto bisogno di vedere i miei fratelli e i miei amici più stretti. Avrei voluto distrarmi. Ma nulla di tutto ciò fu possibile. La sofferenza è stata doppia, in quei giorni trascorsi chiusa in casa con i miei genitori».
Che ruolo ha avuto la famiglia nella gestione della malattia?
«È stata fondamentale, per il supporto fisico e morale che mi ha garantito. Ho due fratelli che non vivono qui, ma che ci sono sempre stati. Nonostante il colpo subìto, i miei genitori si sono confermati un porto sicuro, in cui ho scelto di trascorrere le settimane di tempesta. C’erano loro ad attendere notizie in auto a giugno, nel parcheggio dell’ospedale di Milano dove sono stata operata. Risvegliarsi da sola, dopo quell’intervento, è stato durissimo. Come non avere una madre accanto per andare in bagno, dopo sei mesi di chemioterapia e cinque ore di sala operatoria».
Da cosa si è lasciata guidare, durante questi mesi?
«Dalla stima nei confronti di chi si è preso cura di me. E dalla relazione che ho stabilito con loro, a Taranto come a Milano. Non potrò mai dimenticare le infermiere e medici che erano al mio fianco durante la chemioterapia: sono stati loro a consentire ai miei fratelli di essere con me, durante le prime tre sedute prima dell’emergenza sanitaria. Né la chirurga che mi ha operato: ci ha tenuto a stringere la mia mano tra le sue, prima di farmi entrare in sala operatoria. È una donna giovane, ci ha messo poco a entrare in empatia con la mia situazione. Io, in questo tempo, ho lavorato per mantenere un atteggiamento positivo. Sono convinta che un approccio costruttivo e improntato alla fiducia nella scienza rappresenti un supporto efficace alle terapie farmacologiche».
Sabrina, com’è cambiata la sua vita, in un anno e mezzo?
«La paura, pensando al futuro, c’è. Ma ho imparato a gestire in modo diverso il presente. Non riesco più a fare progetti a lungo termine, la visione del tempo è rivoluzionata. “Hic et nunc", è questo il mio approccio alla vita, oggi. Di ogni giornata, assaporo tutto: senza portarmi dietro dei rimpianti nemmeno per un secondo. Nel frattempo, continuo a curarmi. Dopo l’intervento, è stata la volta della radioterapia. Adesso sono seguita all'ospedale di Brindisi, dove sto partecipando a una sperimentazione clinica con un farmaco immunoterapico».
Che cos’è il cancro per lei?
«Un nemico che mi ha tolto la spensieratezza, la capacità di guardare al futuro con la gioia e la solarità che mi hanno sempre contraddistinto. Ma che mi ha reso anche più forte. Ho dovuto fare i conti con delle sfide che mai avrei pensato di essere in grado di affrontare e di superare. E, probabilmente, una donna più completa. Ho imparato, soprattutto, ad avere la forza di accettare quello che non posso cambiare. Adesso aiuto le altre donne chiamate ad affrontare il percorso che io ho già messo alle spalle. Così riesco a dare un senso a tutto questo dolore».
E Covid-19, invece?
«Un’ulteriore sfida lungo il percorso di rinascita, di ripresa e di riappropriazione della mia vita».
Nessun programma a lungo termine. Ma un desiderio per il futuro c’è?
«Recuperare i tre viaggi che avevo in programma, una volta superata l’emergenza sanitaria: uno con il mio compagno, uno con i miei fratelli e l’altro con un gruppo di amiche».
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).