Dietro le sbarre episodi tragici e spesso senza una spiegazione di detenuti che si tolgono la vita. Parla il direttore del reparto di Medicina Penitenziaria all'Ospedale San Paolo di Milano
Dietro le sbarre episodi tragici e spesso senza una spiegazione di detenuti che si tolgono la vita. Parla il direttore del reparto di Medicina Penitenziaria all’Ospedale San Paolo di Milano
I detenuti, siano essi in attesa di giudizio o giudicati, sono privati della libertà, ma non possono essere privati del diritto alla salute. Eppure sono all’ordine del giorno notizie preoccupanti di persone arrestate o fermate dalle Forze dell’ordine, che muoiono dopo poche ore, per cause che restano inspiegate anche a distanza di anni. Un caso eclatante è quello di Giuseppe Uva, un quarantacinquenne morto nel 2008 a Varese a 3 ore dal suo fermo. Ancora oggi i familiari si stanno interrogando sul perché, sul come e su chi sia responsabile di quella morte. Così pure restano ancora aperti gli interrogativi sulla morte di Bianzino, Aldovrandi e Cucchi.
DIRITTO ALLA SALUTE - Ma i detenuti o le persone fermate e arrestate perché sospettate di reato non hanno gli stessi diritti alla salute? Risponde Rodolfo Casati, direttore del reparto di Medicina Penitenziaria all’ospedale San Paolo di Milano.
«I detenuti in qualsiasi momento del loro percorso godono degli stessi diritti degli altri cittadini per avere cure, assistenza e aiuti morali per affrontare qualsiasi tipo di malattia e di situazione all’interno delle carceri. Da alcuni anni è cambiata la competenza ministeriale, nel senso che non è più il Ministero Giustizia ma il Ministero della Sanità che ha in carico il controllo della loro salute, attraverso le Asl o le Aziende ospedaliere. Per tutti c’è il medico di “raggio” che funge da medico di base, c’è una guardia medica 24 ore su 24, negli Istituti più grandi c’è un centro clinico interno per la cura e l’osservazione delle malattie più gravi. Poi ci sono i centri specialistici ospedalieri. La Medicina Protetta del San Paolo di Milano (20 posti letto), il Pertini di Roma, il Belcolle di Viterbo e il Cotugno di Napoli».
CHI NON ACCETTA IL CARCERE - Eppure ogni giorno succedono casi di detenuti che si uccidono o mettono in atto azioni lesive per attirare l’attenzione sul loro caso. Come è possibile? «Certo – risponde Casati – mentre noi medici ci occupiamo della salute e della prevenzione, psicologi e psichiatri intervengono quando c’è il rischio che il detenuto voglia mettere in atto gesti pericolosi per la sua vita. Si tagliano le vene, si impiccano, oppure ingeriscono oggetti lesivi. Ma c’è anche chi rifiuta la terapia, chi fa lo sciopero della fame e noi possiamo fare poco contro queste decisioni. Il loro diritto di scelta viene rispettato. Ci accorgiamo subito di soggetti fragili, quando vengono in ospedale perché non sopportano la vita carceraria. In genere sono individui alla prima esperienza in carcere. Sono i più deboli, soffrono di depressione ed è qui che noi e gli psicologi possiamo intervenire per aiutarli a superare questo momento della loro vita. Diventiamo un po’ le loro figure di riferimento, dal momento che hanno perso anche i rapporti affettivi».
CARCERE COME CASA - I film ci hanno mostrato anche casi di affezione, di detenuti che non vogliono lasciare il carcere. «Sì, è vero – aggiunge il dirigente medico – perché il carcere per i detenuti con lunghi periodi di pena, o l’ergastolo, diventa una seconda casa. E quando arriva il momento di tornare libero, fra la gente comune, dove spesso gli antichi affetti non ci sono più, il detenuto si sente solo, isolato e abbandonato a sé stesso: ha paura della libertà!»
Ne è un esempio la storia raccontata nel film “Le ali della libertà” dove il bibliotecario, dopo 30 anni di carcere, viene riammesso nel mondo civile, sia pure con un lavoro e una casa. Ma fatica a inserirsi nell’ambiente e si toglie la vita.
Edoardo Stucchi