I geni BRCA mutati aumentano le probabilità di sviluppare un tumore del seno o delle ovaie. Quando la malattia è invece presente non influisce sull'esito
Le mutazioni dei geni BRCA sono fattori di rischio per l'insorgenza del tumore del seno e dell'ovaio. Ciò significa che ereditarle predispone la persona ad avere un aumentata probabilità di andare incontro alla malattia. Al contrario le mutazioni BRCA non influenzano la mortalità per questi tumori. Ciò significa che quando la diagnosi di cancro avviene le proabilità di superare la malattia sono identiche tra chi possiede la mutazione e chi no. Ad affermarlo è uno studio dell’Università di Southampton pubblicato dalla rivista The Lancet Oncology.
I GENI BRCA 1 E BRCA2 MUTATI AUMENTANO IL RISCHIO DI SVILUPPARE LA MALATTIA
Alla base dello sviluppo di un tumore al seno vi sono diversi fattori. Mentre alcuni sono modificabili attraverso lo stile di vita, altri sono presenti sin dalla nascita e non si possono modificare in alcun modo. E' questo il caso di alcune particolari mutazioni dei geni BRCA 1 e BRCA2. Chi le possiede -il caso più famoso riguarda l'attrice statunitense Angelina Jolie- ha maggiori probabilità (sino all'80%) di sviluppare un tumore del seno e delle ovaie. Ad oggi si calcola che il 10% dei casi totali di tumore al seno origini da difetti nei geni BRCA. Ciò accade perché questi geni mutati portano alla produzione di proteine che hanno una capacità di riparare i danni al Dna con un'efficienza nettamente inferiore rispetto a quelle prodotte in assenza di mutazione. Ecco perché, proprio per l'incapacità di riparare il Dna, le cellule accumulano più mutazioni che possono portare alla trasformazione tumorale.
LE MUTAZIONI DI BRCA NON INFLUENZANO LA MORTALITA' PER TUMORE AL SENO
Assodato il concetto che possedere una mutazione BRCA aumenta il rischio di malattia, attenzione ad associare la presenza del gene mutato con una maggiore mortalità in caso di tumore del seno. Lo studio da poco pubblicato dai ricercatori inglesi in questo senso parla chiaro: se si ha un tumore al seno le chance di sopravvivenza sono le stesse delle pazienti che non hanno il Dna mutato. Per arrivare a questo risultato gli autori dell'analisi hanno reclutato oltre 2400 donne. Tutte di età non superiore ai 40 anni e alla prima diagnosi di un carcinoma mammario invasivo, nei dodici mesi successivi alla diagnosi sono state sottoposte al test genetico per valutare la presenza o meno della mutazione. Seguite a due, cinque e dieci anni dalla diagnosi è emerso che il tasso di mortalità era indipendente dall'avere o meno la mutazione nei geni BRCA.
IN CASO DI MUTAZIONE: PIU' CONTROLLI O MASTECTOMIA PREVENTIVA
Cosa fare invece in presenza di mutazione? «Innanzitutto è fondamentale sapere se si è portatori di questa mutazione - spiega Paolo Veronesi, presidente della Fondazione e direttore della divisione di senologia chirurgica dell'Istituto Europeo di Oncologia di Milano -. Il test generalmente viene effettuato nelle donne al di sotto dei 35 anni quando si registrano almeno tre casi in famiglia di tumore al seno e all’ovaio tra madre, zie o sorelle». In caso di positività sono due le strade che si possono seguire. La prima è quella di intensificare i controlli. «Accanto a mammografia ed ecografia è fortemente consigliata una risonanza magnetica annuale. La seconda, come nel famoso caso di Angelina Jolie, è quella di procedere con la mastectomia radicale e talvolta anche con la rimozione delle ovaie. In ogni caso è indispensabile non solo il counseling genetico ma anche quello psicologico», conclude Veronesi.
TUMORE AL SENO: SEGNI E SINTOMI
A CUI PRESTARE ATTENZIONE
IL TEST DEL BRCA DEVE ESSERE ESEGUITO IN TUTTI I CASI DI TUMORE
Ma la ricerca delle mutazioni di BRCA non è questione solo di diagnosi precoce. Il test andrebbe infatti effettuato anche dopo la diagnosi di tumore -in particolare quello all'ovaio- poiché la conoscenza della positività o meno è utile nella scelta di quali terapie utilizzare. Non solo, conoscere l'eventuale positività può essere di aiuto per allargare l'analisi al resto della famiglia. Un'indicazione sulla carta che non trova però ancora un riscontro sul piano pratico. L’accesso al test non è infatti garantito in modo omogeneo in tutte le Regioni italiane.
Daniele Banfi
Giornalista professionista del Magazine di Fondazione Umberto Veronesi dal 2011. Laureato in Biologia presso l'Università Bicocca di Milano - con specializzazione in Genetica conseguita presso l'Università Diderot di Parigi - ha un master in Comunicazione della Scienza ottenuto presso l'Università La Sapienza di Roma. In questi anni ha seguito i principali congressi mondiali di medicina (ASCO, ESMO, EASL, AASLD, CROI, ESC, ADA, EASD, EHA). Tra le tante tematiche approfondite ha raccontato l’avvento dell’immunoterapia quale nuova modalità per la cura del cancro, la nascita dei nuovi antivirali contro il virus dell’epatite C, la rivoluzione dei trattamenti per l’ictus tramite la chirurgia endovascolare e la nascita delle nuove terapie a lunga durata d’azione per HIV. Dal 2020 ha inoltre contribuito al racconto della pandemia Covid-19 approfondendo in particolare l'iter che ha portato allo sviluppo dei vaccini a mRNA. Collabora con diverse testate nazionali.