Via libera soltanto in cinque regioni. A frenare la diffusione sono la diffidenza di una parte della comunità cientifica e i costi notevoli. Ma nella terapia del dolore ci sono riscontri inequivocabili
Il dibattito è attuale, perfino sulle colonne del New England Journal of Medicine. I benefici dell’utilizzo della cannabis a scopo terapeutico sono superiori o no ai danni potenziali? Il suo impiego avviene a macchia di leopardo: al coraggio di alcune Regioni, fa da contraltare l’estrema prudenza delle altre. Diciannove Stati negli Usa hanno liberalizzato la vendita. In California sono stati installati trenta distributori automatici che venderanno 800 tipi di cannabis. «Ma soltanto a chi ne farà un uso terapeutico: il controllo avverrà attraverso le impronte digitali», ha spiegato ai media Eugene Davidovich, sostenitore del consumo di marijuana in campo medico.
IL CASO AMERICANO – Lo spunto della prestigiosa rivista cita il caso di una donna, 68 anni, malata di cancro al seno con metastasi, che per placare il dolore vorrebbe giocarsi l’ultima carta: la cannabis, la cui coltivazione è consentita nel suo Stato e a cui provvederebbe direttamente, potendo contare su un ampio giardino. Sul caso si sono registrate due versioni. Quella possibilista, affidata a Michael Bostwick, della Mayo Clinic di Rochester, in Minnesota. «Una letteratura in gran parte aneddotica, ma crescente, sostiene la sua efficacia: in particolare quando il dolore e la nausea non rispondono alle terapie tradizionali. Il medico che prescrive la marijuana dovrebbe farlo solo quando le opzioni conservative hanno fallito, in pazienti pienamente informati con cui è in corso una relazione terapeutica». E quella più conservatrice, affidata a Gary Reisfield, dell'Università di Gainesville in Florida e Robert DuPont, dell'Institute for behavior and health di Rockville, nel Maryland. «Permettere a una paziente, con sintomi non controllati di cancro del seno metastatico, di uscire dall'ambulatorio con una raccomandazione di fumare marijuana, equivale a trascurare le certezze scientifiche. La pianta contiene centinaia di composti farmacologicamente attivi, la maggior parte dei quali non sono stati ben caratterizzati. Ogni quantità di marijuana erogata è di provenienza incerta, di potenza variabile e può contenere sostanze sconosciute». Il sondaggio, esteso a pazienti e medici, ha raccolto 1446 risposte. Il 76% dei votanti ha scelto la linea dell’apertura, il 23% è rimasto su posizioni meno progressiste.
LA LEGGE IN ITALIA - Con un decreto approvato il 18 aprile del 2007 e aggiornato a gennaio scorso, due dei principi attivi presenti nella cannabis, il Delta-9-tetraidrocannabinolo ed il Trans-delta- 9-tetraidrocannabinolo (Dronabinol) sono stati iscritti nella tabella II, sezione B, delle sostanze stupefacenti e psicotrope e relative composizioni medicinali, considerato che «costituiscono principi attivi di medicinali utilizzati come adiuvanti nella terapia del dolore, anche al fine di contenere i dosaggi dei farmaci oppiacei, e inoltre si sono rivelati efficaci nel trattamento di patologie neurodegenerative quali la sclerosi multipla». Con questo inserimento si è aperto un periodo di teorico accesso ai farmaci cannabinoidi. Le procedure per importarli, infatti, si sono rivelate complicate e costose e la coltivazione è ancora vietata. In Italia la disomogeneità nell’utilizzo tra le Regioni è evidente. Al momento la cannabis può essere prescritta dai medici in Veneto, Liguria, Toscana, Puglia, Marche e nella Provincia autonoma di Bolzano: con relativa copertura dei costi a carico delle aziende sanitarie locali. Se ne sta parlando in queste settimane in Emilia Romagna e in Umbria. «C’è una larga evidenza convalidata dall’Ema, ma la reticenza è dovuta anche ai costi», sostiene Sabatino Maione, ordinario di farmacologia alla Seconda Università di Napoli. Ampio è lo spettro di patologie trattate in Europa: sclerosi multipla (non ancora in Italia), nausea da chemioterapia, dolore cronico, epilessia, morbo di Parkinson, malattie infiammatorie croniche intestinali, sindromi da astinenza e ansioso-depressive. «Al momento si somministrano tre tipi di farmaci: il THC associato al cannabidiolo, il Dronabinolo e la molecola sintetica Nabilone. Il cannabidiolo è il più sicuro, mentre l’efficacia del THC è limitata dalle sue proprietà psicomimetiche che impongono l’impiego combinato. Tutti agiscono sui recettori cannabinoidi CB1 e CB2, presenti soprattutto nel sistema nervoso centrale».
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).