Dall'analisi del liquido cerebrospinale agli esami del sangue, sempre più studi promettono di identificare precocemente le persone a rischio di sviluppare le demenze. Ecco lo stato dell'arte
La popolazione anziana è in aumento in tutto il mondo. Tra le varie forme di demenza che particolarmente preoccupano c'è la malattia di Alzheimer poiché l’età rappresenta un fattore di rischio ben noto. Tuttavia, i mutamenti nel cervello possono iniziare anche più di dieci anni prima della comparsa dei sintomi. Infatti, durante questa fase molto precoce della malattia, nel cervello si verificano già alcuni cambiamenti, tra cui l’accumulo anomalo di proteine, come la proteina tau e l’amiloide-β. Sfortunatamente, però, la diagnosi di Alzheimer avviene spesso dopo la comparsa di problemi di memoria o altri sintomi, che indicano che la malattia sta progredendo da diversi anni. Ciò evidenzia l’utilità di sviluppare un metodo non invasivo per ottenere una diagnosi precoce. Ma è davvero possibile identificare il rischio di sviluppare demenza molti anni prima della diagnosi? Recenti studi sembrano avvicinarci sempre di più verso una diagnosi precoce delle demenze e della malattia di Alzheimer, prima della comparsa dei sintomi. Il professor Domenico Praticò, Direttore dell’Alzheimer's Center della Temple University di Philadelphia, ci ha aiutato a capire meglio a che punto siamo.
DIAGNOSI PRECOCE: VANTAGGI E INCOGNITE
«La diagnosi di Alzheimer è un processo complesso -afferma Praticò-. Tuttavia il progresso che si è osservato negli anni è sorprendente. In passato, quando si parlava di demenze, nessuno usava il termine Alzheimer, poiché si pensava che fossero parte dell’invecchiamento. La diagnosi, quindi, è stata per molto tempo trascurata e solo negli anni ’90 si è iniziato a capire che le demenze sono delle malattie vere e proprie e che possono essere racchiuse in diverse categorie. Oggi abbiamo strumenti a disposizione con cui riusciamo nel 95% dei casi ad avere una diagnosi di Alzheimer accurata grazie allo sviluppo delle tecnologie. Dieci anni fa, invece, la diagnosi avveniva solo post-mortem su reperti autoptici. Le demenze purtroppo non presentano sintomi chiari ma sono il risultato di un processo lento e cronico che, quando si manifesta con chiarezza, è l’espressione di una malattia che è già presente da diversi anni. Ad oggi, purtroppo, non abbiamo a disposizione test che permettano di identificarle in anticipo. Tuttavia una diagnosi precoce come per tutte le malattie avrebbe un impatto drammatico sul decorso delle demenze. Avere a disposizione dei biomarcatori che indichino in modo preciso il rischio di sviluppare la malattia sarebbe, quindi, molto utile e potrebbe aiutare a cambiare la storia clinica dei pazienti. Gli studi più recenti confermano che amiloide-β e proteina tau sono degli importanti biomarcatori che precedono la manifestazione clinica della malattia. Questi potrebbero essere utili, ad esempio, per aiutare a interpretare i test di memoria attualmente utilizzati per la diagnosi, in cui alcuni pazienti ottengono dei valori che ricadono in un’area grigia, che non sono facilmente riconducibili a una diagnosi di demenza».
GLI STUDI RECENTI
Secondo un recente studio, pubblicato sulla rivista Nature Aging, la diagnosi precoce della malattia di Alzheimer sarà presto possibile grazie a un esame del sangue in grado di rilevare la patologia e altre forme di demenza in uno stadio molto precoce, prima della comparsa dei sintomi. I ricercatori del team di Shanghai hanno analizzato campioni di sangue di oltre 50.000 adulti sani, raccolti nella UK Biobank, 1.417 dei quali avevano sviluppato demenza negli ultimi 14 anni. È stato osservato che alti livelli ematici di quattro proteine -GFAP, NEFL, GDF15 e LTBP2- erano fortemente associati alla comparsa di demenza. Inoltre queste proteine erano più elevate nel sangue già dieci anni prima che i pazienti cominciassero a mostrare i primi sintomi. In particolare, le persone con alti livelli di GFAP nel sangue, sembrano avere più del doppio delle probabilità di sviluppare demenza rispetto alle persone con livelli nella norma, e hanno quasi tre volte più probabilità di sviluppare l’Alzheimer. La ricerca presentata ha, quindi, identificato biomarcatori molto promettenti da includere in un metodo di screening per la malattia di Alzheimer basato sull’esame del sangue. Questi biomarcatori potrebbero portare a diagnosi più precoci, consentendo così un intervento più tempestivo. Un altro studio molto recente, condotto in Cina e pubblicato sul New England Journal of Medicine, ha invece analizzato il liquido cerebrospinale (CSF) di più di 600 pazienti con malattia di Alzheimer, comparandolo con quello di altrettanti individui sani in un periodo di 20 anni, per identificare dei biomarcatori in grado di predire lo sviluppo della malattia. Sono state individuate alcune molecole la cui presenza differiva nelle persone con malattia di Alzheimer, già diversi anni prima della diagnosi. Ad esempio, un tipo specifico di amiloide-β risul-tava alterata già 18 anni prima della diagnosi e la proteina tau 10 anni prima. Questo studio ha confermato che queste proteine iniziano ad accumularsi nel cervello delle persone che svilupperanno l’Alzheimer anche molti anni prima, anche nella popolazione orientale. Il prelievo di liquido cerebrospinale rappresenta sicuramente un esame più invasivo per lo sviluppo di un test di screening, ma anche questo studio risulta molto promettente per la diagnosi precoce della malattia di Alzheimer.
INTERPRETARE I DATI
«I biomarker di cui parlano gli studi, soprattutto quando identificati nel fluido spinale, possono essere molto utili, ma devono sempre essere combinati con altri esami di conferma, in particolare le tecniche di imaging» afferma Praticò. È, infatti, importante notare che questi test non predicono una certezza di sviluppare la malattia, ma solo un aumentato rischio. «È un aspetto molto importante. Ad esempio negli USA, dove lavoro, negli ultimi anni si è diffusa l’abitudine di acquistare test online con i quali vengono analizzati fattori di rischio genetici per diverse malattie. Uno dei fattori genetici di rischio per l’Alzheimer è la variante genica APOE4 e molte persone sono preoccupate di sviluppare l’Alzheimer dopo aver fatto questi test. Si sono diffusi anche test da effettuare sul sangue per dosare l’amiloide-β o la proteina tau, che sappiamo essere utili per lo studio delle demenze, ma per la cui interpretazione è fondamentale rivolgersi a medici specializzati, perché altrimenti si rischia di allarmarsi inutilmente. Infatti, non si tratta di una diagnosi. Avere la variante APOE4, o livelli elevati di amiloide-β o tau, come dati singoli, non vuol dire che si svilupperà la malattia in futuro».
I TEST OGGI A DISPOSIZIONE
La diagnosi corretta è il primo passo verso la scelta del trattamento più adeguato e per progettare il futuro di ogni paziente con malattia di Alzheimer. Oggi abbiamo a disposizione una serie di strumenti che permettono di confermare la diagnosi. In primis è necessario effettuare un test per valutare le funzioni cognitive e la memoria. È importante, inoltre, una diagnosi differenziale per escludere altre patologie in grado di causare demenza o perdite di memoria (come un deficit della vitamina B12, ipotiroidismo, tumori). La conferma della diagnosi avviene tramite tecniche di imaging, che permettono di rilevare la presenza di anomalie tipiche della malattia di Alzheimer. Tra gli esami utilizzati ci sono la risonanza magnetica (MRI), la tomografia compu-terizzata (TC) e la tomografia a emissione di positroni (PET). Questa si avvale di sostanze radioattive, note come traccianti. Ad esempio, la PET con fluorodesossiglucosio (FDG) può identificare le regioni del cervello con un ridotto metabolismo del glucosio, aiutando a distinguere tra diversi tipi di malattie neurodegenerative. Recentemente, inoltre, sono state sviluppate scansioni PET che rilevano l’accumulo di amiloide o tau, associato alla malattia di Alzheimer.
LA PREVENZIONE PASSA DAL CORRETTO STILE DI VITA
Il professor Praticò si occupa da anni del ruolo dei fattori di rischio modificabili per la malattia e spiega che delle piccole accortezze possono aiutarci a mantenere in salute il nostro cervello: «È un argomento a me molto caro. Solo il 3-4% dei casi di Alzheimer sono di natura genetica, in cui i pazienti hanno una familiarità e nascono con specifiche mutazioni che li predispongono a sviluppare la malattia. Ma, nella stragrande maggioranza dei casi, circa il 95%, si tratta di una malattia sporadica a esordio tardivo, di cui non conosciamo singole cause, ma che è probabilmente di natura multifattoriale. In queste forme sporadiche sono presenti fattori di rischio non modificabili, come l’età o alcuni fattori genetici, e altri che invece sono modificabili. Da più di dieci anni sappiamo che i fattori di rischio modificabili riguardano in gran parte le malattie metaboliche. Ad esempio, l’obesità, il diabete o l’ipertensione non controllati, rappresentano dei fattori di rischio per le demenze, se presenti durante la mezza età. Gli studi indicano che quasi il 35% dei casi di Alzheimer potrebbero essere eliminati correggendo la glicemia, il peso corporeo e l’ipertensione. Quindi, stili di vita salutari, come seguire una dieta sana, non fumare e fare anche solo una leggera attività fisica (come una camminata di venti minuti al giorno) possono aiutarci a prevenire queste condizioni. Non è mai troppo presto per iniziare ad avere dei comportamenti virtuosi e non è mai troppo tardi per prenderne atto. Cervello e corpo sono strettamente connessi, quindi mangiare bene e avere cura di sé sono aspetti fondamentali per la prevenzione. Un recente studio ha provato che anche l’attività di lettura rappresenta uno stimolo utile per la salute del cervello. Io sono molto ottimista per il futuro, perché conosciamo sempre meglio la malattia e abbiamo molti strumenti a disposizione che fanno sì che si possa agire per migliorarne il decorso».